28/07/07

E' uscito il nuovo numero della Rivista "Metapolitica"

Chi volesse puo' chiederne una copia omaggio scrivendo alla Redazione: Via Giovanni Bolzoni, 79

00124 Roma.

21/07/07

I Simpson e il paganesimo

Un gigantesco Homer Simpson in mutande che brandisce la sua tanto amata ciambella è apparso nei giorni scorsi accanto al gigante della collina di Cerne Abbas, nel Dorset, per promuovere il nuovo film del cartoon americano più popolare del mondo.
Le ire della Federazione dei Pagani non si sono fatte attendere. Uno di loro maggiori esponenti, Ann Bryn-Evans, ha detto alla stampa: ‘’Sono veramente sconcertata dal fatto che abbiano avuto il permesso per fare una cosa talmente ridicola. Le persone sono molto affezionate a quel luogo. Le giovani ragazze spesso vanno ai piedi della figura per pregare. Stiamo cercando di far venire la pioggia per lavarlo via da quella collina’’.
La storica figura della campagna inglese è una rappresentazione interamente ricavata nello strato di gesso che si trova sotto l'erba della collina e viene considerata un potente simbolo di fertilità. Si tratta di un’area severamente monitorata e custodita che tutt’oggi è fonte di studi e ricerche, molto cara ai pagani del luogo.
La pittura del personaggio ideato da Matt Groening, alta circa 54 metri, è stata realizzata su commissione da Peter Stuart con colori biodegradabili a base di acqua, ed è quindi destinata a scomparire alla prima pioggia.
Non è la prima volta che il gigante di Cerne Abbas viene sfruttato a scopi pubblicitari. In passato i pubblicitari si sono serviti della sua immagine per promuovere prodotti di tutti i tipi come condom, jeans e biciclette.
La Bryn-Evans ha poi concluso: ‘’Si tratta di qualcosa di assolutamente irriverente. Vogliono usare la collina come un grosso cartellone pubblicitario?’

Una domanda mi sorge spontanea:
Come mai s'offendono tanto per un buffo simpatico e politicamente scorretto personaggio dei cartoni animati, proprio i "pagani" wicca così promotori della "tolleranza" rispetto ai crudeli papisti dell'Inquisizione sempre pronti alla scomunica e al rogo?
Voui vedere che insieme al cervello, nel calderone della Dea, si sono bolliti e bevuti anche il senso dell'umorismo?
Vai Homer, lotta per tutti noi!

20/07/07

Pio XII, un rabbino contro la leggenda nera

Nel febbraio del 2001 un noto accademico ebreo, il rabbino David Dalin, pubblicò sul Weekly Standard un articolo destinato a fare il giro del mondo. In questo articolo (pubblicato anche in Italia dalla Rivista di studi politici internazionali), Dalin affrontava i nodi storiografici riguardati Pio XII, esaminandoli sotto una luce nuova. Senza preoccuparsi di addentrarsi su un terreno minato per le relazioni tra ebrei e cattolici, Dalin prendeva nettamente le distanze dai tanti miti che avevano distorto, nel corso degli anni, l'immagine e la memoria di Eugenio Pacelli, che i più accesi accusatori consideravano, a seconda delle sfumature culturali, silenzioso e passivo testimone della Shoah o addirittura complice del nazifascismo.
Il mito del "Papa di Hitler", effetto del successo mediatico del Vicario di Hochhuth e di libri come quello di John Cornwell, andava quindi sfatato una volta per tutte. Il Rabbino non risparmiava critiche anche a quanti, sull'onda delle "citazioni in serie", avevano fatto un uso deliberatamente strumentale delle fonti, alterandole e quindi alterando la verità storica.
Che l'analisi del "caso Pio XII" risenta di questo problema era noto da tempo. Come abbiamo osservato in altra occasione, si dimentica troppo spesso che su Pio XII esiste non solo una letteratura apologetica, ma anche una letteratura "ipologetica", che trascura di considerare le fonti nel loro insieme prima di emettere un giudizio, che quasi sempre è di condanna senza appello di quel papa.
Pochi ad esempio hanno notato che gli accusatori di Pacelli sono deboli su punti storiografici non trascurabili. Si prenda ad esempio il caso della "razzia" degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. Quasi tutti gli accusatori di Pio XII si sono basati su un telegramma del 28 ottobre 1943, in cui l'ambasciatore tedesco in Vaticano, von Weizsäcker, scriveva a Berlino che «nonostante le pressioni esercitate su di lui da diverse parti, il papa non si è la sciato indurre a nessuna dichiarazione di protesta contro la deportazione degli ebrei di Roma» e che «sebbene egli si renda conto che tale atteggiamento gli verrà rimproverato dai nostri nemici e dai circoli protestanti dei paesi anglosassoni con intenti di propaganda anticattolica, in questo delicato problema ha fatto di tutto per non peggiorare le relazioni con il Governo e le autorità a Roma»; pertanto si poteva «considerare liquidata questa spiacevole faccenda per le relazioni tedesco-vaticane». Nessuno di costoro ha notato che l'ambasciatore tedesco nascose al suo governo un evento assai importante. Egli fu infatti convocato in Vaticano proprio la mattina del 16 ottobre, per sentirsi dire che «è doloroso per il Santo Padre che proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre comune, siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengono ad una stirpe determinata». Sono queste le esatte parole che il Segretario di Stato pronunciò. Egli poi esortò l'interlocutore tedesco ad adoperarsi per far cessare le deportazioni, ammonendolo che la Santa Sede non doveva «essere messa nella necessità di protestare», perché in tal caso essa si sarebbe affidata «per le conseguenze, alla Divina Provvidenza».
Fu la pubblicazione dei documenti della Santa Sede a correggere il tiro e a informarci del colloquio tra l'ambasciatore tedesco e il Segretario di Stato. Avendo von Weizsäcker omesso d'informare Hitler di tale colloquio, era chiaro che dagli archivi tedeschi non si poteva conoscere l'esatta dinamica degli eventi. E per quanto oggi la verità sul 16 ottobre 1943 sia pienamente conosciuta, molti deliberatamente la ignorano, preferendo i dispacci tedeschi che potremmo definire come il "silenzio di von Weizsäcker" sulla razzia degli ebrei romani.
Contro questi esempi di letteratura "ipologetica" interviene Dalin anche nel suo ultimo libro, ora in uscita in Italia col titolo La leggenda nera del papa di Hitler (Piemme). La disamina di Dalin non parte con Pio XII, ma tocca i rapporti tra ebrei e cattolici nel corso dei secoli, dimostrando come essi non siano stati del tutto infruttuosi. Per l'eminente rabbino americano, il fecondo terreno dell'attuale dialogo ha radici antiche, di cui nel libro si troveranno molti esempi. E' ovvio che il rapporto tra ebrei e cattolici non fu sempre lineare e sereno; ma è del pari chiaro per Dalin che il cristianesimo è stato uno dei migliori alleati dell'ebraismo, alla luce di eventi storici che non si limitano certo al quadrante europeo.
L'idea del rabbino è anzi che, forse oggi più che mai, sia necessario rafforzare quest'alleanza, alla luce delle minacce che provengono dal fondamentalismo islamico. Per questa ragione Dalin trova insensate, oltre che infondate, le ricorrenti accuse a Pio XII provenienti da alcuni settori culturali ebraici, vedendovi (ci si passi il termine) un plateale autogol. Perché per lo studioso ebreo un tale atteggiamento alimenta un dilagante anticattolicesimo, che altro non è che una nuova forma di antisemitismo.
Ci si scaglia contro Eugenio Pacelli. Ma egli dovrebbe per Dalin essere considerato un "Giusto tra le Nazioni", per il suo ruolo decisivo nel salvataggio degli ebrei dalla Shoah: non solo a Roma ma dovunque gli israeliti fossero minacciati. Del resto, quanti cattolici "Giusti" onorati da Yad Vashem non hanno fatto risalire a Pio XII la loro opera? Dimenticando tutto questo, si trascura di arginare i veri conati antisemiti di oggi: uno dei più plateali è la diffusione nel mondo islamico, a livello di bestseller, delle edizioni in arabo dei Protocolli dei Savi anziani di Sion e del Mein Kampf di Hitler. La via di uscita è quindi riprendere le fila di un sereno dialogo fra ebrei e cattolici, che non consideri la storia ancella di posizioni precostituite.

(Fonte: Avvenire del 18/07/2007)

13/07/07

La scomparsa di Barbiellini Amidei

«Sono un uomo d'altri tempi, non amo il gossip». E infatti amava il buon giornalismo, la misura delle cose, la tolleranza di fronte alle opinioni altrui, anche in presenza di un contrasto aspro, virile, ma sempre pieno di rispetto. Basterebbe questo per rimpiangerlo. A soli 72 anni Gaspare Barbiellini Amidei ci lascia. Eterno numero due del Corriere della sera, poi direttore de Il Tempo di Roma, quindi di nuovo editorialista in via Solferino, e da ultimo per il Quotidiano Nazionale. E libri, tanti libri, scritti, letti, riletti, ripubblicati, da New Age, Next Age a Picasso. Guernica, fino a Quel profondo desiderio di Dio. In filigrana, senza fatica, vi si legge un perpetuo umanesimo, quello integrale di Maritain (che amava moltissimo) coniugato con le domande inesauste della vita, che gli facevano dire in tempi recenti: «La nostra vita è assillata da forze ostili: dal dominio assoluto delle leggi dell'economia e del profitto alla minaccia di un terrorismo che rischia di distruggere le fondamenta della nostra civiltà. Dopo il crollo di tutte le utopie, l'uomo ha bisogno di ritrovare un nucleo forte che aiuti a riformulare la propria esistenza. Perché siamo sempre più le cose che ci circondano, siamo gli oggetti che ci abitano e ci dimentichiamo di noi stessi».
E allora ecco l'inesausta domanda di Dio, che Barbiellini Amidei, cattolico ma sempre restio ad indossarne la casacca («Perché la professione - sosteneva - con le convinzioni religiose non c'entra nulla»), ha seguito come un segugio per tutta la vita, arrivando solo poche settimane fa ad esaltare la visita di Papa Ratzinger sulla tomba di Agostino come grande metafora della conversione, la quale «consiste nel condividere l'idea agostiniana di felicità raggiunta attraverso la convergenza fra fede e ragione». La stessa convergenza che lo porterà attraverso gli anni a profetizzare (come prima di lui Oswald Spengler) il malinconico tramonto dell'Occidente, che tuttavia grazie all'intelligenza e alla tenacia degli uomini contiene in nuce il suo stesso riscatto, la medesima promessa di rinascita. E nei giorni scorsi rispondendo ad un lettore che gli chiedeva un parere sulla messa in latino, scriveva nel suo blog: «Ciò che colpisce è la rozzezza effimera dell'informazione. Non so se molti media non sanno o fanno finta di non sapere. Nessun ritorno a fasi-preconciliari e nessuna cancellazione. Il latino non era mai scomparso del tutto e nessuno dentro la Chiesa oggi pensa di imporlo come egemone nei riti. La vita quotidiana di quella parte dei credenti che fa pratica religiosa non cambierà. Le chiacchiere, colte e non, hanno venature sovente politiche, si dividono fra malcelato anticlericalismo e spirito mondanamente reazionario».
Grande avversario del sincretismo («è il massimo del depotenziamento del pensiero della trascendenza») come di ciò che Maritain chiamava "l'ateismo pratico", Barbiellini Amidei metteva in guardia fin dai primi anni Ottanta (gli anni della grande sbornia ottimistica dell'Occidente, degli yuppies, dell'edonismo reaganiano, della Milano da bere) sui rischi perversi di quel relativismo fai-da-te che incentrava sulla ricerca del benessere fisico prima che spirituale il senso ultimo della vita. «La vecchiaia, il dolore, la malattia - scriveva - affinano l'ascolto. La verità cristiana è la capacità di percepire il dolore altrui senza umiliare il corpo».
Barbiellini Amidei era elbano, di Marciana, piccolo accrocchio di case affacciate sul mar Tirreno che lui continuava ad amare e a ritrovare ogni estate, quando ritornava sull'isola a commentare fatti, a presentare libri, a polemizzare con garbo con i grandi soloni della carta stampata, quelli per cui tutto è già stabilito, tutto è già stato detto. Lui non si capacitava: «Tutto è sempre nuovo - diceva - a cominciare dall'educazione dei figli». E sull'educazione, sulla deriva materialistica che affligge il mondo occidentale, sulla miscredenza che avvelena la ricca Europa, sul sincretismo delle sette che ero de il cattolicesimo sudamericano, su quei valori che dovrebbero cioè formare le nuove coscienze e che sempre più spesso sono assenti, Barbiellini Amidei era pronto a dare battaglia dalle colonne dei giornali. Anche a costo , come in un suo memorabile Elogio del pudore, di passare agli occhi di alcuni come un irrecuperabile bacchettone. Cosa che non era affatto. Nell'azzurro dei suoi occhi brillava sempre la scintilla di un'ironia che sapeva essere dolce e insieme corrosiva, un connubio perfetto fra il gusto sardonico dei livornesi e la pietas coltivata del credente. Occhi che sembravano sempre puntare al cielo.
Che si è ripreso questo suo chierico vagante, dopo tanto errare.

(Fonte: Avvenire del 13/07/2007)

12/07/07

Bambin Gesù del Pinturicchio a Roma

Non solo un capolavoro dell'arte, il "Bambin Gesu' delle Mani" del Pinturicchio e' un'opera che continua a parlare, anche attraverso i secoli. Il quadro rinascimentale, infatti, ha recentemente permesso di svelare un affascinante mistero: la singolare storia di amori segreti che ha per protagonisti papa Alessandro VI Borgia e Giulia Farnese. Per conoscere questa vicenda e ammirare la tela, il "Bambin Gesu' delle Mani" del Pinturicchio si mette in mostra nella Sala Regia di Palazzo di Venezia, a Roma, dal 19 luglio al 9 settembre.

Proveniente da un affresco delle stanze vaticane, ora scomparso, e raffigurante la Madonna e il Bambino con il papa Alessandro VI Borgia inginocchiato in adorazione, il cuore della composizione, ovvero il Bambino Gesu' benedicente, e' riconsegnato al pubblico dopo oltre cinque secoli grazie all'acquisizione da parte del Gruppo Margaritelli, che l'ha poi affidato alla fondazione Guglielmo Giordano per promuoverne lo studio e la divulgazione. L'opera sara' presentata con l'ausilio delle piu' evolute tecnologie multimediali, svelando l'appassionante storia di questo inedito affresco prima smembrato, poi perduto e infine fortuitamente riscoperto. L'allestimento, che si snoda attraverso ambienti successivi, comprende un filmato che vede protagonista Arnoldo Foa'.

Fonte: AdnKronos Cultura