28/09/07

Pier Paolo Ottonello: "Sciacca. Interiorità e metafisica"

I brevi saggi qui raccolti sottolineano alcuni aspetti fondamentali, con lo sguardo puntato in particolare sulle dinamiche odierne dell'Europa e dell'Occidente, della vasta opera di Michele Federico Sciacca. Fra i maggiori filosofi del Novecento, Sciacca è uno dei pochissimi che ha costantemente coniugato l'attenzione alla storia delle idee - da Platone ad Agostino, da Rosmini alla contemporaneità - e l'originale robusta costruttività teoretica. Tra le sue opere - una cinquantina, la maggior parte delle quali tradotte in diverse lingue - sono veri classici L'interiorità oggettiva, Morte e immortalità, La libertà e il tempo, L'oscuramento dell'intelligenza, La filosofia, oggi.

(Pier Paolo Ottonello, Sciacca. Interiorità e metafisica, Marsilio 2007)

Addendum

Pier Paolo Ottonello, nato nel 1941, dal ’75 è ordinario di Storia della Filosofia nell’Università di Genova. Autore di oltre seicento pubblicazioni in Italia e all’estero, nell’87 ha iniziato a ordinare e integrare i propri scritti entro un programma di trenta volumi. Presso Marsilio ha pubblicato: Sciacca. La rinascita dell’Occidente (1995), La barbarie civilizzata (1998), Rosmini. L’ideale e il reale (1998), Sciacca. L’anticonformismo costruttivo (2000), Scudisciate all’estetica (2000), L’uomo «equivoco» (2001), Ontologia e mistica (2002), Trattato della Paura (2003), Antiaccademici e maledetti (2004), L’oscuramento dell’interiorità (2005), Saggi rosminiani (2005), Del Cielo e della Terra (2006); Sciacca. Interiorità e metafisica. Dirige diverse collane filosofiche e i periodici internazionali «Filosofia oggi», «Rivista Rosminiana», «Studi Sciacchiani», «Studi Europei». Presiede L’Arcipelago, Società Internazionale per l’Unità delle Scienze, fondata nel ’90 con Maria Adelaide Raschini. Marsilio ha pubblicato anche il volume Strade maestre (2005) in suo omaggio per il 30° di Cattedra universitaria.

26/09/07

"Spiriti cercanti. Mistica e santità in Boine e Papini"

Con questo libro Giona Tuccini indaga in modo autorevole e familiare le ragioni della fortuna "dimenticata" di due storici capifila della letteratura italiana moderna, Giovanni Boine e Giovanni Papini, in aperto dialogo con i Padri della Chiesa e la tradizione mistica del Rinascimento. Oggetto di questo studio sono le penetranti considerazioni critiche d'autore su Juan de la Cruz, Anselmo d'Aosta, Agostino che per Boine e Papini non furono solamente tre singolari vie a Dio, ma espressione di una incessante ricerca informale che, obbedendo ad un suo piano interiore, si rinnovava ogni volta come esercizio del vivere e del credere.

(Giona Tuccini, Spiriti cercanti. Mistica e santità in Boine e Papini", Ed. Quattroventi, 2007)

23/09/07

Dostoevskij, il diario dal sottosuolo

Ritorna, finalmente nell'edizione italiana curata egregiamente da Ettore Lo Gatto, con una nuova introduzione di Armando Torno, un libro fondamentale per capire l'anima e la stessa letteratura del grande Fedor Dostoevskij, il Diario di uno scrittore, opera monumentale di oltre 1400 fittissime pagine che rappresentano non tanto il «diario intimo» del grande narratore russo, ma la sua prospettiva pubblica, quello che Torno definisce come un «laboratorio, ma anche un luogo per i grandi contraddittori da presentare, una stanza dove si rifugia con le più inquietanti domande e che apre ai suoi personaggi», alla complessità del loro pensiero.
Questo libro rivela un'altra anima di Dostoevskij, parallela a quella del grande scrittore che conosciamo, quella del giornalista, visto che queste pagine nascono su rivista, una pubblicazione mensile, redatta interamente dallo scrittore stesso che se ne occupa, seppur con interruzioni, per quasi una decina d'anni, dal 1873 al 1881. Proprio per questo motivo appare come un'opera non certamente omogenea dal punto di vista strutturale, in quanto affronta problematiche d'attualità, soprattutto politiche, che erano urgenti nella Russia di quel contesto storico, questioni che al lettore di oggi possono apparire superate, ma rivelano invece, nella complessità del pensiero che ci mostrano, riflessioni attualissime su tematiche sociali, quali sono quelle relative all'emancipazione femminile o ai problemi giudiziari, religiose con le straordinarie pagine dedicate al tema dell'esistenza di Dio, all'arte e alla letteratura. Un libro se vogliamo composito e anomalo, la cui struttura non comprende solo scritti a carattere giornalistico vero e proprio, ma anche racconti (alcuni dei quali, secondo Lo Gatto sono tra i più belli dello scrittore russo), visti in un'ottica che da narrativa diventa esperimento filosofico.
È un libro del quale si comprende appieno la profondità e l'attualità a prescindere dal contesto in cui le rifle ssioni sono nate, contesto che oggi spiega la ragione dell'intervento di Dostoevskij, ma che può disorientare il nuovo lettore di questo testo, le cui preziosità sono le idee che appaiono fulminee, come frammenti, tra le righe. Con una sorta di filo conduttore, una grande idea utopica di legame con la tradizione russa, una Russia che sta al centro dell'identità europea: «Solo la Russia vive non per se stessa, ma per il pensiero, ed è ben degna di rilievo la circostanza che è ormai quasi un secolo che la Russia vive esclusivamente non per sé, ma solo per l'Europa».
E a livello più generale e filosofico così il grande scrittore spiega questa sua convinzione: «Ogni grande popolo crede e deve credere, se vuole restare a lungo in vita, che in lui, e soltanto in lui è racchiusa la salvezza del mondo e che vive per essere alla testa dei popoli, attrarli tutti a sé e portarli in un coro armonico, a uno scopo definitivo, a loro tutti predestinato». Rimandiamo, per la ricostruzione del contesto storico in cui nascono queste riflessioni, all'introduzione puntualissima di Ettore Lo Gatto, limitandoci qui a esemplificare alcuni nei nodi centrali che rendono prezioso questo «tesoro» di pagine dostoevskiane, aggiungendo quanto la nostra contemporaneità abbia bisogno di riflettere, in tempi di imbarbarimento delle identità nazionali e del concetto stesso di popolo, su queste annotazioni.
Come essenziale è anche l'importanza che lo scrittore russo vede nel tema dell'istruzione, vista nell'ottica di una idea formativa, prima ancora di un semplice e tecnicistico apprendimento. La salvezza spirituale è intuita da Dostoevskij solo nella centralità che è possibile ridare all'istruzione, nei termini di una rinascita morale. Altra aspetto di grande attualità che dovrebbe far riflettere e non poco sulla realtà non solo della scuola, ma anche della comunicazione, di oggi: «C'è un solo cemento, un solo legame, un solo terreno sul quale tutto si unisce e concilia, ed è la conciliazione spir ituale generale, il cui principio è nell'istruzione. Noi siamo da parte nostra convinti che l'istruzione migliorerà moralmente il popolo e gli darà il sentimento di una propria dignità che, a sua volta, distruggerà molti abusi e disordini, ne distruggerà addirittura la possibilità».
Già queste parole sono la dimostrazione di come questo «diario» di uno scrittore possa essere letto come un «involontario» breviario laico, dal quale trarre occasioni per confrontarsi su temi che in tempi di decadenza come quelli che stiamo vivendo, urgono di una ristabilizzazione morale, visto che il libro rappresenta «il pensiero dostoevskiano nel suo divenire», un pensiero che come riferisce Lo Gatto, chiarisce a fondo «l'idea dostoevskiana, secondo la quale la vera libertà e la vera uguaglianza non sono possibili che in Cristo, idea che perseguita e ossessiona lo scrittore».

(Fedor Dostoevskij, Diario di uno scrittore, Bompiani. Pagine 1402. Euro 35,00)

21/09/07

Cardini: in difesa del Motu Proprio


So che il mio,in questa sede e in questo contesto, è un difficile còmpito. Cattolico, tradizionalista, uomo d'ordine e di forte senso dello stato, potrei forse ancora dirmi “di destra”. Da anni non mi considero né mi autoqualifico più in tal modo: ma vedo che così continuano ad etichettarmi, confesso che la cosa mi secca un po' tuttavia lascio correre. Ma la mia tensione verso la giustizia sociale e il mio convinto europeismo m'impediscono di provar la minima simpatìa per una destra che ormai ha scelto quasi all'unanimità il liberismo e l'atlantismo più sfrenati e che sovente ostenta anche un filocattolicesimo peloso, strumentale, palesando di ritener la Chiesa cattolica solo un baluardo dell'ordine costituito (l' “ordine” di lorsignori) e del benpensantismo conformista. Lo dico chiaramente: non mi piacciono i cattolici che con la scusa della difesa della “civiltà occidentale” ammirano quel monumento all'ipocrisia e all'uso politico della fede che sono gli gli “atei devoti”; né apprezzo le ragioni del tutto strumentali per le quali alcuni “laici” simpatizzano per la Chiesa di Ratzinger.
Non mi sogno nemmeno di finger di dimenticare che proprio da tali ambienti sono partite, con pochissime eccezioni – il sempre lucido e paradossale Guido Ceronetti, per esempio – le difese d'ufficio del Motu Proprio con il quale Benedetto XVI autorizza di nuovo esplicitamente ed estensivamente l'uso (mai del resto prima proibito) della lingua latina nella liturgia ecclesiale cattolica,in particolare nella messa. Non mi sono affatto piaciuti gli accenti rancorosi e trionfalistici con i quali certi cattolici, oggi vicini ai teocons americani e convinti che Cristianità e Occidente moderno siano tutt'uno (e che magari l'aggressione all'Afghanistan e all'Iraq sono state guerre “giuste”, se non addirittura “sante”...) hanno salutato con poco caritatevoli “Avevamo ragione noi” un documento pontificio le ragioni del quale sono ben più alte e profonde di quanto non sospetti chi pensa a un regolamento di conti fra opposte cosche vaticane. Non apprezzo per nulla,del resto,il fariseismo di pessima lega degli ipercattolici tutti Dio, Embrione e Famiglia che accolgono con entusiasmo quanto meno sospetto dal “musulmano”(?) Magdi Allam lezione di difesa della Cristianità e che non mostrano di preoccuparsi nemmeno un po' dei mali derivanti nel mondo dall'ingiustizia dilagante e degli innocenti che ogni giorno muoiono in tutto il pianeta per carenza di cibo, d'igiene e perfino d'acqua, mali a gran parte dei quali i Signori della Finanza e della Tecnologia e i politici che ne sono Comitato d'Affari potrebbero in buona parte ovviare se solo accettassero di rinunziare a una fettina dei loro profitti.
D'altronde,ho visto molti cattolici e molti vescovi che oggi sento più vicini al mio modo d'intendere il cattolicesimo assumere una posizione ostile o comunque molto riservata di fronte alla scelta liturgica e disciplinare del Santo Padre. Mi ha allarmato la critica molto dura, se l'ho intesa a dovere, del priore di Bose, Enzo Bianchi, che ammiro e col quale di solito mi sento sempre, da molto tempo ormai, in sintonìa.
Questo disagio non m'impedisce, tuttavia, di provare una gioia straordinaria e di esprimere un consenso incondizionato rispetto alla decisione di Benedetto XVI. E di proclamare ad alta voce che sbaglia chiunque (non importa se “da destra” o “da sinistra”) legge in essa,ingenerosamente e riduttivamente, un tentativo di “rimandar indietro le lancette dell'orologio della storia, o di compiacere questo o quell'ambiente conservatore, o di far rientrare una volta per tutte le istanze “scismatiche” dei residui ambienti lefevriani. Niente di tutto ciò. Il papa vola ben più alto e scende molto più in profondo.
Non si tratta per nulla di “tornare indietro”. Al contrario, papa Ratzinger guarda avanti eccome. Ristabilendo la piena legittimità di utilizzare il rito del Messale di san Pio V, avallato nel 1962 da Giovanni XXIII, egli non cancella affatto l'uso delle lingue moderne (“vernacole”, come si dice), ma ne consente con pienezza di libertà l 'utilizzazione e addirittura ne autorizza la convivenza con il latino laddove ciò sia pastoralmente opportuno. La sensibilità dei vescovi e del clero nell' amministrare le opportunità consentite da questa nuova risorsa liturgico-culturale è il criterio che il “Motu Proprio” pontificio privilegia; il consenso delle singole comunità e la collaborazione interna a ciascuna di esse tra clero e popolo è il principale requisito raccomandato nelle scelte che guideranno la rinnovata vita liturgica.
A questo punto, va detta un'altra cosa che non tuttisannoo mostrano di aver capito. Il latino non è, non è mai stato, una “lingua morta”. Esso resta il paradigma idiomatico-culturale di tutta una civiltà che non è soltanto occidentale, ma che è universale: non solo la liturgia e la teologia, bensì anche la filosofia, la scienza, la diplomazia e soprattutto il diritto che tutto il mondo seguiva, o al quale esso comunque guardava, si sono espressi fino a tutto il XVIII secolo in latino. Fino ad allora,le lezioni universitarie si tenevano in latino. Perfino nelle corti di Mosca, di Istanbul, di Isfahan, di Delhi,di Pechino e di Kioto si ricevevano messaggi diplomatici redatti in latino da parte delle potenze occidentali e in tale lingua si rispondeva.
Nella nostra povera piccola Italia, molti borghesucci piccoli piccoli hanno acclamato alla “liberazione” quando una trentina di anni fa le nostre scuole, sbagliando, hanno ridotto il peso e l'importanza del latino (proclamato “inutile”)fino a farlo quasi sparire nel ”training” educativo dei nostri ragazzi. Ma dev'esser chiaro che ciò non è stato un bene neppure sotto il profilo pratico, funzionale e utilitario: da allora si è cominciato a deteriorare anche l'uso dell'italiano nelle stesse classi “colte”, mentre le possibilità di studiare con profitto le lingue straniere (specie quelle che, come il tedesco e il russo, presentano rispetto al latino grosse affinità strutturali) si sono andate restringendo; e sono affiorate per contro difficoltà crescenti nell'uso dei linguaggi scientifico e tecnologico,profondamente permeati di elementi lessicali latini. E, del resto, il nostro cronico provincialismo c'impediva di vedere che, in altri paesi, non accadeva affatto quel che succedeva da noi:altrove, dalla Germania alla Polonia alla Boemia fino al Giappone, gli istituti di alta cultura scolastica si guardavano bene dall'abbandonare lo studio del latino. La Chiesa cattolica statunitense gli è rimasta, dagli Anni Ottanta ad oggi, estesamente e profondamente fedele. In Finlandia esiste un'emittente radiofonica, seguitissima nel paese e molto ascoltata all'estero, che diffonde in latino qualunque tipo di notizia, incluse le economiche,le politiche e le sportive. Dall'America alla Cina si vanno facendo esperimenti di adattamento del linguaggio informatico all'idioma latino,e molti esperti assicurano che la lingua di Cesare e di Virgilio è, a tale scopo, obiettivamente e in linea di principio molto più duttile e pratica di quella di Shakespeare (per non parlare di quella di Bush...).
Ma vediamo anche l'aspetto propriamente religioso ed ecclesiale. Nulla come il latino predispone a un autentico “Ut unum sint” in tutta la Chiesa. Che i cattolici di tutto il mondo possano tornar a pregare insieme, e attraverso il linguaggio della preghiera a rivalorizzare in senso assoluto uno strumento fondamentale di comunicazione e di pensiero, è un fatto di straordinaria importanza. La realtà si conosce attraverso il tramite linguistico: questa è la grande lezione che la migliore psicanalisi e la migliore semiotica ci hanno impartito nel corso del XX secolo. Come ha dimostrato Sigmund Freud, il linguaggio onirico si esprime per moduli strettamente legati all'idioma materno del sognante. Le realtà profonde si colgono solo secondo una lingua data. Ebbene, sappiatelo chiaramante, o cristianucci occidentali: l'Occidente conosce Dio in latino, e solo attraverso il latino Lo capisce appieno.
Da qui, è ovvio,discende quindi la necessità di rivedere le tradizioni vernacole della liturgia,delle quali il rinnovato confronto con il latino paleserà tutta l'inadeguatezza. Non potremo continuar più a tradurre lo splendido “Agnus Dei, qui tollis peccata mundi” con un insulso,stupido e sbagliato “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo”. Incarnandosi e salendo sulla croce,il Cristo non ha “tolto” un bel niente. Al contrario: ha assunto su di sé (questo l'autentico significato del verbo latino tollere, che significa “prendere” e “sostenere”) il peso di tutti quei peccati e li ha pagati col sacrificio del Suo sangue.
E va da sé che nessun cattolico vorrà più, nella liturgia del Giovedì Santo, pregare “et pro perfidis Iudaeis”. La parola “perfidus”, in latino,ha il significato etimologico di “colui che si è allontanato dalle fede”:il che, dal punto di vista cristiano, si può ben dire degli ebrei che, atteso fedelmente per secoli il Messia,quando Egli è arrivato non lo hanno riconosciuto. Ma non va certo ignorato che quella parola ha semanticamente assunto,nel linguaggio comune,il valore di “perverso”, “feroce”,”malvagio”. Era quindi cattiva,in tutti i sensi”, la traduzione italiana “preghiamo per i perfidi giudei”,che aveva finito per assumere un odioso connotato razzistico. Io spero che, nella riproposizione latina della liturgia, la preghiera per gli ebrei (ora stolidamente abolita: come cattolico,esigo di continuar a pregare per loro) venga restaurata con un bel “Oremus et pro fratribus nostris Iudaeis”; e sia magari accompagnata da preghiere per gli altri nostri fratelli, per tutti. I musulmani, gli aderenti alle altre religioni del mondo, i non-credenti, gli atei. Solo così la lingua latina tornerà sul serio a essere quel ch'è profondamente sempre stata: l'autentica lingua della pace universale; la lingua di quei due giganti dell'ideale di fratellanza umana che sono stati Marco Aurelio e sant'Agostino.
Ecco perché credo che il Motu Proprio di papa Benedetto XVI vada accolto con gioia e con ammirazione. Non vuol tornare indietro: interpreta il presente e guarda con generosa lucidità al futuro. Non vuol dividere: intende unire. Non vuol impoverire e ridurre: arricchisce, amplia, innalza, approfondisce. Ma dev'essere correttamente inteso: senza pregiudiziali equivoci “di sinistra”, senza miserabili strumentalizzazioni “di destra”. Non è né di destra, né di sinistra. E' al di sopra e avanti.

(Fonte:www.identitaeuropea.org)

18/09/07

Continue novità sulle origini dell'uomo

Alla luce delle più recenti scoperte scientifiche sembra che sia possibile affermare che gli antenati del cosiddetto Homo sapiens ("primate bipede, nonché mammifero placentato appartenente alla famiglia degli ominidi"... sic!), comparso nell'Africa sub-sahariana 200 mila anni orsono (sic!), fossero asiatici e forse addirittura europei ("euroasiatici" per la felicità dei nostri amici russi "tradizionalisti"). Gli studiosi gongolano per queste "novità" e dichiarono questo tema come una delle frontiere per il prossimo futuro della paleoantropologia. A noi queste prosaiche pseudo verità non interessano, ma facciamo comunque a lorsignori i più fervidi auguri, in attesa che ci propinino qualche altra "sconvolgente" rivelazione.

17/09/07

Il falso Medioevo di Ken Follett

«Non credevo in Dio vent'anni fa così come non credo oggi. Ciò che è effettivamente cambiato è la mia consapevolezza di tutto il male che può essere fatto in nome della religione… La Peste (del 1347-52) rivelò a tutti la verità: il clero era completamente impotente… La scoperta dell'infezione batterica ha permesso di salvare la pelle a milioni di persone dimostrando che i pregiudizi antiscientifici della religione non avevano alcun fondamento». Non varrebbe la pena di perder tempo e inchiostro citando questo bouquet di sciocchezze, di banalità, di errori e di bugie: se esso non fosse uscito ohimè - salvo auspicabili ma improbabili smentite - dalla bocca di uno dei più arcinoti, arciletti e idolatrati scrittori del nostro tempo; e se un intervistatore di "Panorama" di questa settimana non l'avesse religiosamente raccolto e trascritto, senza un commento che non sia ammirato e lusinghiero. Come oro colato. E di oro, perdinci, non si tratta davvero.
L'effigie di Ken Follett, il celebre autore di thrilling e di spy-stories tra i più venduti al mondo, occupa trionfale la copertina del noto settimanale, dove si annunzia esultanti: «Scienza e religione: le colpe della Chiesa» e dove si presenta il suo nuovo libro, Mondo senza fine, come «un atto di accusa contro il clero».
Il libro non è ancora nelle librerie, ma è già un best seller annunziato: e diverrà tale, per forza di cose, dal momento che la potente macchina mediatica del suo editore è già in moto e le foto dell'autore campeggiano in tutte le grandi librerie. Uno sforzo notevole, che avrà una ricaduta sicura. Ma a tutto c'è un limite. Nulla da dire sul Follett autore di thriller di successo, come La cruna dell'ago. Ma quand'egli si cimenta con i temi storici, specie quelli legati al Medioevo, bisogna dire che i risultati sul piano appunto storico sono deludenti: il suo gettonatissimo I pilastri della terra è, sotto il profilo della ricostruzione di quello che egli presenta come "il Medioevo", un ridicolo polpetto ne nel quale navigano (ed è il lato migliore) reminiscenze di Victor Hugo condite in una salsa che sta fra Disneyland e Carolina Invernizio. Non ho ancora letto Mondo senza fine, e non posso quindi giudicarlo: ma, stando alle dichiarazioni del suo autore, c'è davvero di che indignarsi.
L'intervistatore ha l'aria di aver scoperto qualcosa di nuovo e d'originale, «un Medioevo molto lontano dalla rappresentazione stereotipata di epoca immobile e priva d'innovazione». Scappa da ridere, ma scappa anche la pazienza. Da decenni la medievistica mondiale ci va al contrario ripetendo - da Bloch a Le Goff a Tabacco a mille altri - che, al contrario, il cosiddetto Medioevo (un'età convenzionalmente definibile, e comunque lunghissima, perfino oltre un millennio secondo alcuni) fu caratterizzata da una profonda sperimentazione in tutti i campi, dalla tecnologia alla politologia. Perfino un mistico come Bernardo di Clairvaux era un innamorato delle macchine, dei mulini e delle gualchiere che lavoravano nei monasteri cistercensi. Follett è liberissimo di essere ateo e anticlericale: ma, se decide di parlare del Medioevo, non è affatto libero d'ignorare tutto dell'autentica passione per la ricerca e l'innovazione che investe personaggi come Gerberto d'Aurillac, Ruggero Bacone e tanti altri: chierici, sacerdoti, religiosi e mistici, non qualche isolato sognatore alchimista o ereticheggiante.
Ma la Chiesa inventata dal Follett nel suo ultimo romanzo, a sentir lui, è una cosca di profittatori, di ladri, di sfruttatori e di violentatori. Viene la peste a metà Trecento, e non fa nulla né per combatterla, né per alleviare le pene della gente. Secondo il Follet, le università, gli ospedali, le enormi opere di misericordia sono nulla. Secondo lui, le responsabilità del fatto che la meccanica delle infezioni batteriche non fosse nota prima dell'Ottocento è da ascriversi ai «pregiudizi antiscientifici della religione». Non gli passa nemmeno per la testa che le tesi relative al contagio do vuto alla «corruzione dell'aria» o allo «squilibrio degli umori fisici» fossero in realtà, appunto, la scienza del tempo, quella praticata da tutta una società: e dalla Chiesa stessa, appunto, nella misura in cui Chiesa e società del tempo coincidevano.
Rinvio gli interessati a conoscere qualcosa di più a proposito della Peste Nera al mio recente libro Le cento novelle contro la morte (edizioni Salerno), dove il periodo esaminato dal Follett è considerato sotto il profilo della medievistica più recente. In particolare, non è affatto così pacifico che l'epidemia si portò con sé i due terzi della popolazione europea: in realtà le vittime del contagio si dislocarono «a chiazze di leopardo», secondo una geografia difficile da comprendere. In molti casi, i morti furono ben superiori alla stima data dallo scrittore gallese; in altri, viceversa, addirittura il contagio non passò. Noto al riguardo il caso della città di Milano, che venne misteriosamente e miracolosamente risparmiata. Quanto al conflitto fra scienza e Chiesa, ripeto, esso non ci fu affatto. I medici del tempo erano assolutamente inquadrati all'interno di un sapere coerente e coeso, nel quale teologia e fisiologia profondamente convivevano. Le critiche espresse dal romanziere non hanno quindi alcuna credibilità e discendono chiaramente o dalla sua ignoranza dei dati di fatto, o dal suo pervicace anti-cattolicesimo, o da un'antipatica miscela di entrambe le cose.
Questa "tirata" anticristiana e, soprattutto, anticattolica, finisce appunto per colpire tutte le religioni e il fatto religioso in sé. Dalla religione e dall'homo religiosus nascono tutti i mali del mondo, allora come oggi. La sete di guadagno, le distruzioni indiscriminate dell'ambiente nel nome del profitto, l'illimitata volontà di potenza delle élites economiche e finanziarie e dei loro complici executives non hanno alcuna responsabilità. Tutto è colpa di Dio e di chi ci crede.

Autore: Franco Cardini

12/09/07

Quella spada non è di re Artù

Di chi è Excalibur? Di un re o di un santo, di Artù o di Galgano? Italia e Francia, - anzi: Bretagna e Toscana - sembrano affrontarsi in singolar tenzone giostrando intorno a uno dei miti più popolari del Medioevo cavalleresco: la spada nella roccia, appunto. E in palio c'è un primato prestigioso: quello di chi ha piantato per primo quell'arma nella pietra.
Fu lo storico Franco Cardini, in un lavoro del 1982 su san Galgano (l'eremita del Senese ai cui luoghi, tra Chiusdino e Monte Siepi, accorrono migliaia di turisti), il primo a notare un'analogia tra la vicenda dell'ex cavaliere toscano e la «materia di Brettagna», secondo cui divenne re d'Inghilterra il solo capace di estrarre un gladio infisso nella pietra. Artù, insomma, potrebbe essere l'antenato (o il successore?) di Galgano, il nobile che piantò la sua arma in un sasso per cambiar vita e dedicarsi alla religione. Il parallelo - che salta all'occhio a qualunque spettatore di Disney - venne poi ripreso e anzi rinsaldato da studiosi e divulgatori successivi, soprattutto italiani, interessati ad accreditare una parentela tra il celeberrimo mito fondativo della Tavola Rotonda e il semi-sconosciuto culto locale toscano.
Ora un altro ricercatore (non medievista, bensì storico della cultura nell'età moderna), interviene a rendere a ognuno la sua legittima spada. Con tale intento Mario Arturo Iannaccone firma gli ultimi capitoli di un recente libro dedicato appunto a La spada e la roccia (Sugarco, pp. 240, euro 18,80), in cui la prima parte - dello storico della Chiesa Andrea Conti, senese - si occupa diffusamente di «San Galgano: la storia, le leggende». Iannaccone dunque, pur riconoscendo che «le due storie, arturiana e galganiana, sono pressocché coeve e presentano qualche tratto comune», non è affatto convinto dei legami o addirittura della dipendenza di una tradizione dall'altra. Per lui, «la storia recente dell'affratellamento di Galgano ad Artù sembra più che altro il prodotto di suggest ioni pop», e cerca di dimostrarlo ricorrendo a una vasta analisi delle fonti e dell'iconografia.
Anzitutto, fin dalla prima apparizione - nel roman medievale Merlino, attribuito a Robert de Boron (secolo XII) -, la durlindana di Artù è confitta in un'incudine, posata su un parallelepipedo di pietra; dunque non è affatto una «spada nella roccia», semmai «nel metallo»... Anche due secoli più tardi, nell'opera del poeta inglese Thomas Malory (dalla quale l'epoca moderna ha mutuato il mito arturiano), si parla di una «bella spada infissa in una sorta d'incudine d'acciaio», posta su un blocco di marmo (immagine, suggerisce Iannaccone, della «mediazione tra il divino - la roccia di Cristo, la Chiesa di Pietro - e l'umano - il lavoro dell'uomo», nonché della concordia tra potere spirituale e temporale).
In effetti, le miniature più antiche mostrano Artù, spesso inginocchiato, mentre estrae la spada da un'incudine, dove è inserita in posizione orizzontale («In questo modo veniva meglio indicato il rapporto d'origine che legava l'arma allo strumento del fabbro»). E l'immagine rimane identica fino a metà dell'Ottocento, quando nelle illustrazioni di libri per ragazzi il gesto arturiano smarrisce la sottigliezza dei significati simbolici precedenti e viene dipinto piuttosto come l'azione di un eroe vincente; di conseguenza l'incudine si trasforma in una pietra, anche per il prevalere della generica espressione idiomatica «spada nella roccia» sul rispetto per il dettato del racconto originale.
Le fonti su san Galgano invece (atti del processo di beatificazione e biografie che, tra l'altro, sono di poco successivi alla morte del protagonista, avvenuta nel 1181) parlano concordemente dell'infissione della spada in verticale nel terreno, a mo' di croce, nel luogo prescelto dall'ex cavaliere per l'eremitaggio. Niente roccia, dunque, neppure qui; o - almeno - fino a quando, durante un'assenza del proprietario, alcuni «invidiosi» spezzano la spada, per cui G algano si trova costretto a piantarla in una base più solida: la stessa dove sta ora, in un macigno del Monte Siepi. Anche qui l'iconografia più antica non sbaglia: la spada figura ritta nelle zolle erbose almeno per 140 anni, fino agli affreschi del XIV secolo e più in generale fino al '500.
Tali differenze - sottolinea Iannaccone - sono sottili ma inequivocabili. Nel ciclo bretone si pone cioè l'accento sul miracolo, come del resto è logico per un cantare «leggendario»; le fonti galganiane invece si vogliono riferire a un fatto storico, simbolico ma per nulla miracoloso. E se per ambedue i protagonisti il gesto della spada segna un cambiamento radicale di vita, per Artù l'arma è strumento dotato di potere divino che trasmette una consacrazione definita dall'alto, mentre nel caso di Galgano è il possessore stesso a conferire un significato religioso all'oggetto, attraverso un atto votivo di tradizione feudale.
I due atti sono opposti: il re conquista il simbolo della «compiutezza della formazione cavalleresca», il santo la rifiuta, «rinunciando ad essere un cavaliere nel mondo». Di più: nel ciclo bretone chi non riesce a impossessarsi della spada dimostra «immaturità spirituale», nel racconto toscano è il contrario. Detto con linguaggio da antropologia culturale: «L'estrazione messa in atto dai cavalieri arturiani e l'infissione esercitata da Galgano sono atti simili per gestualità, ma non omologhi».
Anche altre «presunte analogie» tra Bretagna e Toscana, sottolineate da alcuni studiosi per accreditare il rapporto tra i due «cicli», secondo Iannaccone sono «difficili da ipotizzare per la diversità sostanziale dei codici simbolici utilizzati e per la possibilità di spiegare le somiglianze in modo più semplice ed elegante»: per esempio i palallelismi tra il nome di Galgano e il cavaliere Galvano nipote di Artù, la madre vedova del futuro santo e la «Dama Vedova» genitrice di Parsifal, la «Rotonda» di Montesiepi dove si trova oggi la spada e la Tavola Rotonda, e c osì via.
Insomma, sarebbe inattendibile la pretesa di quanti - esoteristi in primis o addirittura massoni - vogliono trasformare la vicenda di Galgano in una sorta di «ripetizione» simbolica della leggenda di re Artù, sottraendo ogni valore storico alle fonti che testimoniano l'esperienza reale dell'eremita di Chiusdino. D'altra parte risulta improponibile anche il cammino inverso, ovvero la dipendenza dei miti bretoni dalla biografia del santo toscano, come proposto di recente da Mario Moiraghi ne L'enigma di san Galgano (Àncora). Se facciamo pasticci sul vero padrone di Excalibur - conclude Iannaccone - è perché «l'icona pop della spada nella roccia (arturiana, disneyana, hollywoodiana...) ha orientato le interpretazioni, le ha falsate ed esposte ad imbarazzanti malintesi». Potenza di Walt Disney.