13/02/09

Stalin ereditò il potere con l'inganno

Sappiamo tutti che la verità assoluta non esiste: è la consapevolezza da cui parte ogni pensiero, ogni filosofia, della vita come della storia. Proprio per questo è importante accertare le verità relative, e battersi perché la constatazione dell’irraggiungibilità di una verità assoluta, che può essere tale solo “per fede”, non si trasformi in cinismo e non porti a sottovalutare quell’imperativo che è la distinzione del vero dal falso.
E’ il senso della responsabilità intellettuale. Quello che spesso manca agli orfani delle ideologie assolute, che, persa la fede, vantano un’indifferenza programmatica, in realtà legata al proprio interesse.
Canfora è, al contrario, un paladino della verità, sempre pronto a smascherare i falsi che vengono proposti ai più semplici da chi conta sulla loro credulità, ma anche ai più avvertiti, da chi conta sulla loro omertà. Certo, come scriveva Lichtenberg, “è impossibile portare la fiaccola della verità in mezzo alla folla senza bruciare qua e là una barba o una parrucca”. O, appunto, qualche maschera.
Già di per sé saper smascherare un falso non è da tutti. Quando poi significa demistificare un’intera costruzione ideologica, per di più imbastita da uno dei personaggi storici più considerati dall’autore, si tocca il vertice dell’onestà intellettuale.
Il documento di cui Canfora si occupa non è un antico papiro ma niente di meno che il “testamento” di Lenin. Falsato, ci dimostra lo “stalinista” Canfora, da Stalin in persona, per occultare le esplicite volontà politiche del padre del partito. Ora, che il parere di Lenin su Stalin fosse totalmente negativo e che Lenin non lo volesse come successore, al contrario di Trockij, su cui era problematico ma non negativo, si sa bene. La rivelazione che emerge dal lavoro filologico di Canfora è che Stalin occultò la rottura con Lenin attraverso la manipolazione testuale. Fu “il suo capolavoro”, perché gli permise di fondare il potere sulla continuità, operazione dietro cui Canfora avverte tutto “il peso e il modello della cultura ecclesiale e imperiale bizantina”.
Quel “testamento” Lenin lo aveva dettato a più riprese, nel dicembre del '22, e completato con un addendum del 4 gennaio '23 molto esplicito sulla necessità di “togliere a Stalin la carica di Segretario Generale”. Eppure, non verrà presentato al Congresso immediatamente successivo, il XII, cui approderà invece un altro scritto di Lenin. Dovrà passare più di un anno prima che venga letto, peraltro a porte chiuse e in sedute ristrette, in forma di “Lettera al Congresso” ancora seguente, il XIII, nel maggio del ’24. In quest’intervallo di tempo si colloca non solo la morte naturale del padre del partito, ma anche quel processo di snaturamento che porterà le volontà di Lenin a correre sotto traccia fino a perdere ogni forza.
Augusto affidò il suo testamento alla moglie Livia e al Collegio delle Vestali. Lenin sembra averlo affidato a sua moglie Nadez^da Krupskaja e attraverso di lei al Comitato Centrale del PCUS. Ma la longa manus di Stalin si interpose. Informato da una delle segretarie di Lenin, intercettò quel testo e lo bruciò, non senza averne fatto fare prima una copia, amanuense, da sua moglie, Nadez^da Alleluieva, più cinque altre a macchina. Ritrovata dallo storico russo Jurij Buranov nell’Archivio del PCUS, la copia autografa della Alleluieva, se la si confronta con la tradizione del dettato pervenuta ai posteri, ci dà la prova che l’interpolazione testuale, e dunque la censura esercitata sulle volontà di Lenin, soprattutto su quelle relative a un'apertura a Trockij, avvenne immediatamente, prima ancora che venissero fatte fare le cinque copie ufficiali.
Su questo, e sul raffronto con quanto fu letto a porte chiuse nel XIII Congresso, si esercita l'abilità del filologo. Sbrogliando l’intrico delle ulteriori e più o meno volontarie mistificazioni create dal proiettarsi dell’ombra di quegli oscuri movimenti sulla stampa dell'epoca, lo storico ricostruisce il ruolo che la falsificazione del “testamento” di Lenin ebbe nella lotta tra la fazione staliniana e l'opposizione, e di qui sulla fine del potere comunista in Russia.
Perché il caso della lettera si riproporrà puntuale a ognuna delle rotture che porteranno via via al disfacimento dell'Urss: dal XX Congresso del '56, il primo dopo la morte di Stalin, fino al rapporto Chrus^c^ev e oltre. La “forza delle parole ha un senso” conclude Canfora. E una verità. La storia falsa ci consegna una di quelle “verità immanenti” che si collocano “non al capo inesistente della serie, ma nella serie stessa” — per usare le parole di Croce poste in exergo — e che proprio l’inconseguibilità di una verità trascendente rende indispensabile cercare; trascendendo una sola cosa: il pregiudizio, l’interesse personale.

(Recensione di Silvia Ronchey al libro "La storia falsa" di Luciano Canfora, Rizzoli 2008,; fonte:/www.silviaronchey.it/)

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