30/08/09

Rivelazione o Apocalisse?

La presente opera prende spunto da uno splendido racconto a carattere iniziatico che ha per titolo "La Rosa Mistica del giardino del Re". Un fantastico cammino, percorso da un Iniziato Derviscio, si snoda all'interno di un Tempio lungo la Via che conduce alla Verità, per raggiungere infine la vera Vita. Ascoltando attentamente le parole del Derviscio, si colgono dapprima indefinite affinità con l'antico ed enigmatico testo dell'"Apocalisse", le similitudini poi assumono sempre maggior consistenza, svelando infine le situazioni, la struttura e i simboli della "Rivelazione" di Giovanni. Il Derviscio descrive 22 visioni, ispirate ai 22 capitoli dell'Apocalisse, ove si trovano sapientemente occultati i 22 Arcani Maggiori dei Tarocchi. Essi sono legati in un complesso schema astronomico-astrologico d'impronta pitagorica e correlati a simboli cabbalistici di cui Giovanni, vero Maestro di 'Gnosi' cristiana, era evidentemente un profondo conoscitore. Attraverso simboli zodiacali ed elementali, cieli, pianeti e profondi insegnamenti dottrinari, il Derviscio, con le sue mistiche visioni, guida il Lettore alla comprensione della Tradizione Eterna iscritta nei cieli. L'opera è interamente illustrata da numerosissime figure, tavole, diagrammi e disegni.

Franco Campagnari, RIVELAZIONE O APOCALISSE?, SEAR ED., pagg. 296 - € 28.00


27/08/09

Per Franco Cardini l' Atlantide è solo “un'insensata elucubrazione”

La radice di tutto quel che vorremmo sapere è forse lontana, remota: e risale ai fenici e alla loro organizzazione di empori mediterranei all’inizio del I millennio a.C. Ma in realtà bisogna risalire forse agli ultimi secoli del III millennio a.C., quando appunto con l’incipiente «età del bronzo» la preistoria comincia a orientarsi verso il momento in cui si comincerà a sistematizzare la memoria: cioè a «fare storia». Prodigiosa lega metallica, il bronzo: splendente, duttile, malleabile, resistente. Con un solo difetto, quasi uno scherzo della natura: uno dei metalli che la compongono, il caldo e morbido rame, abbonda nell’area sud-est del bacino mediterraneo, tra deserto arabico e isola di Cipro; mentre l’altro, il gelido e duro stagno, bisogna andarlo a cercare a nord-ovest, tra penisola iberica e coste della Cornovaglia.
Preistoria, appunto. Non sapremo mai nulla sull’angoscia, la fatica, la paura di antichi marinai provenienti magari dal dolce Mediterraneo e fiondati nel gelido mare dalle alte onde color ferro, tra giorni tempestosi e notti senza luna e senza stelle. Ma le storie sull’infinito mare che si stendeva al di là delle Colonne d’Ercole e sui suoi pericoli dovevano già girare da secoli quando quei gruppi, forse quelle generazioni di cantori che noi chiamiamo collettivamente «Omero», cominciarono a parlarne.
E non è mancato chi ha riconosciuto il Mare del nord e il Baltico nelle acque e nelle isole descritte dall’Odissea. L’Ovest affascina, incanta e impaurisce le genti del Mediterraneo, dall’antico Egitto in poi: luogo dove il sole va a dormire, Terre dei Morti, Isole dei Beati. L’Oceano Atlantico deriva il suo nome dal titano Atlante, figlio di Giapeto e di Climene, condannato per la sua rivolta contro gli dèi olimpici a reggere la volta celeste e residente nell’estremo Occidente, là dove Mediterraneo e Oceano s’incontrano. Ma Platone, riprendendone il mito in due dialoghi, «Crizia» e «Timeo», ne fa un semidio signore di una potenza navale estesa su parte dell’Europa occidentale e dell’Africa 10 mila anni prima di Cristo.
L’impero insulare di Atlantide scomparve nel giro di un solo giorno, in un immenso cataclisma. Si è da allora molto discusso sull’origine e le vicende di questo mito, che Platone illustra ad ammonire la sete di gloria, di conquista, di lusso. In sé, il mito di Atlantide sembra rinviare a episodi biblici come la Torre di Babele e il Diluvio universale. Si è pensato a una versione in carattere mitologico delle antiche memorie, magari oralmente tramandatasi, dell’isola vulcanica di Santorino nelle Cicladi, l’antica Thera. La sua esplosione verso la metà del II millennio a.C. avrebbe provocato un’ondata alta circa 200 metri, abbattutasi su Creta ponendo fine alla raffinata civiltà minoica. Dimenticata nel Medioevo, la tragedia di Atlantide tornò a ispirare l’età moderna, ritessuta da Tommaso Moro nell’«Utopia» e da Francis Bacon nella «Nova Atlantis».
Le isole incantate di cui tanti «conquistadores» sognavano d’insignorirsi avevano quest’origine: anche Sancho Panza s’immaginava il dono d’un’isola quale ricco salario del lungo servizio reso al signor Don Chisciotte. Stando al «Timeo» di Platone, i sacerdoti egizi sarebbero stati i depositari e i primitivi rivelatori di quella storia avvenuta in tempi senza storia; nel «Crizia» egli entrò in dettagli, descrivendo la situazione geografica di Atlantide e i suoi ricchi templi.
Egli, tuttavia, la sottraeva allo spazio controllabile da occhi ellenici e la trasferiva direttamente nell’Atlantico: forse a sottolinearne in realtà, attraverso un’estrema lontananza, la sostanziale condizione d’inesistenza. Prima della paradisiaca «Isola Non Trovata» della geografia rinascimentale e dell’«Isola-che-non-c’è» di Peter Pan, Atlantide è un modello tanto perfetto quanto inattingibile. L’aveva compreso Aristotele, per il quale essa era frutto della fantasia del suo maestro. Un parere di buon senso, a lungo seguìto prima che la fantasia di occultisti e dilettanti otto-novecenteschi cercasse di tradurre in prove il frutto di insensate elucubrazioni.

(Autore: Franco Cardini)


20/08/09

La gabbia d’acciaio. Come l’azienda manipola la vita

Michela Marzano vive da una decina di anni a Parigi. Trascorre le sue giornate in biblioteca o al Cnrs dove lavora. La sua occupazione principale è pensare e scrivere. Ha 39 anni ed è una delle poche italiane che in Francia, paese dove ha pubblicato tutti i suoi libri, riscuote un credito indiscusso. Si è occupata di tematiche legate al corpo, un monumentale Dictionnaire du corp è apparso per l´editore Puf nel 2007, e tra qualche mese uscirà in traduzione per Mondadori.
Di lei parlano i settimanali francesi. Le Nouvel Observateur l´ha inserita tra i cinquanta intellettuali più influenti in questo momento in circolazione. Le sue analisi sulla società hanno un peso e una ricaduta in Francia. Ha lavorato sulla pornografia e sul modo in cui oggi possiamo applicare quel difficile concetto che si chiama etica. Recentemente è uscita con un libro dedicato alla paura (Visage de peur). Lo scorso anno era apparso un saggio tradotto e pubblicato in questi giorni da Mondadori con il titolo Estensione del dominio della manipolazione (pagg. 202, euro 18).
La tesi del libro è che c´è un pensiero manageriale che tende a uscire dall´ambito dell´azienda per invadere ogni parte della vita privata e sociale dell´individuo. A uniformarla. E lo fa in maniera subdola e seduttiva, apparentemente senza costrizione.
«Lei pensi», osserva la Marzano, «all´immagine della “gabbia d´acciaio” che Max Weber usa per descrivere la condizione dell´uomo moderno. Quella situazione di impossibilità a evadere da una società fondata sul modello disciplinare si è trasformata in questi anni in qualcos´altro, in una gabbia d´acciaio riverniciata e riproposta come “gabbia dorata”».
Si è passati dall´imposizione alla persuasione. Che cosa accade nella nuova gabbia?
«Ciascuno è invitato a dare il suo “libero consenso” a ciò che ci si aspetta da lui, a conformarsi alle attese, a privilegiare i comportamenti socialmente condivisi e, se i risultati non arrivano, non può che prendersela con se stesso. È un processo di assimilazione fondato sulla seduzione della retorica. Si tratta di un modello manageriale fondato sulla dissimulazione dei vincoli: non sono io che ti chiedo obbedienza, ma sei tu che “spontaneamente” me la offri. È il prezzo dell´integrazione e del successo».
Il successo è una componente della nostra società.
«D´accordo, ma che succede se non ce la fai? Secondo questa ideologia tutti coloro che non riescono a imporsi sono considerati dei “falliti”, dei deboli che resteranno per sempre ai margini della società e del potere».
Lei sostiene che la mutazione della logica aziendale è avvenuta passando dal fordismo e taylorismo al toyotismo. Cosa ha comportato questo cambio di prospettiva?
«Il “toyotismo” è solo una tappa di una rivoluzione manageriale che promette ai più devoti felicità e benessere. Poco importa se poi la stragrande maggioranza delle persone si trovano prigioniere di una logica pericolosa che le svuota dall´interno».
Il “toyotismo” è una nuova filosofia di lavoro, nata in Giappone, che corrisponde all´idea che una società non può essere retta solo da vincoli gerarchici. Lei lega la nuova visione aziendale alla caduta della vecchia società disciplinare. Da che cosa è stata sostituita?
«Da un nuovo ordine in cui i “diversi” gli “anormali”, tutti coloro che non ottengono il successo sperato, si ritrovano ancora una volta ai margini della società. Dietro la retorica contemporanea che valorizza la libertà e l´autonomia personale, si nascondono nuove regole e nuove norme di comportamento».
A questo proposito lei descrive l´esperienza del coaching, termine preso in prestito dal linguaggio sportivo. Il coach non è un filosofo né uno psicoanalista. Non è neppure un controllore di anime, è piuttosto un motivatore. È quello che si prende cura del lavoratore, della squadra, in nome della produttività. Cosa vuol dire “prendersi cura”?
«All´origine il “prendersi cura” era direttamente legato alla pratica della conoscenza: ognuno era invitato a comprendersi e a accettarsi a partire dalla propria specificità e differenza. Oggi si assiste a un obbligo e a una codificazione del prendersi cura: ognuno deve prodursi secondo una serie di ricette per arrivare a gestire le proprie emozioni, rinforzare l´auto-stima, controllare il proprio linguaggio e le proprie immagini. Lo scopo è quello di produrre un uomo conforme alle attese, impeccabile e perfetto».
Un uomo che potenzialmente abbia le caratteristiche di un leader, anche se sprovvisto di carisma.
«Non credo che il leader possa fare a meno del carisma. Per essere leader bisogna suscitare un certo entusiasmo. Il problema è semmai legato al tipo di carisma che oggi affascina. Nell´antichità esistevano degli eroi che catalizzavano l´attenzione del popolo e che erano pronti a sacrificarsi di fronte al pericolo. Oggi i leader promettono mari e monti, ma non sono mai disposti a sacrificarsi. Cercano una gloria immediata e quando parlano di sacrifici, si tratta sempre dei sacrifici degli altri. La loro abilità è soprattutto retorica. Gli esseri umani per loro non hanno alcun valore».
Tra gli effetti dell´ideologia manageriale c´è la sua estensione alla politica. Il partito-azienda ne è un esempio. Non ritiene che l´aziendalizzazione della politica – sondaggi, marketing, eccetera – abbia prodotto indebolimento e banalizzazione della democrazia?
«Tenderei a invertire il processo, nel senso che è la banalizzazione della democrazia a rendere possibile l´aziendalizzazione della politica. Il vero problema della contemporaneità è che la democrazia si è svuotata dall´interno, riducendosi a una serie di pratiche formali. Non basta ottenere la maggioranza dei voti per parlare di democrazia».
E cosa dovrebbe fare una democrazia?
«Dovrebbe avere il compito di garantire un certo numero di diritti e di promuovere una serie di valori. Oggi attraverso i sondaggi, il marketing e più generalmente la manipolazione dell´opinione pubblica e la costruzione del consenso, la democrazia non garantisce più nulla, non promuove più alcun valore».
Lei si è occupata in un libro del tema della paura. Non ritiene che l´uso strumentale di questo sentimento rilanci un´idea di società disciplinare, costruita sul controllo e la repressione?
«È un esito più che probabile. La paura, che è un´emozione umana che tutti conosciamo e che può a volte essere salutare, soprattutto quando ci avverte di un pericolo e ci spinge a mobilitare le nostre risorse interne per superarlo, è oggi completamente strumentalizzata».
In che modo?
«La strumentalizzazione comincia quando si cerca un capro espiatorio, quando si dice alla gente che per superare la paura bisogna cacciare gli stranieri, accettare le milizie armate nelle città, o ancora considerare normale il fatto che le persone siano schedate in base al loro Dna. È allora che la paura diventa una forma di panico e che tutti coloro che non sono conformi sono guardati come pericolosi: non si ha più fiducia in nessuno e la società non si fonda più sul dialogo e l´accoglienza ma sul controllo e la repressione».
Cosa c´è dopo la manipolazione?
«Se non si riesce a uscirne, il rischio è il ritorno di forme di totalitarismo. Come lo spiegava bene il nipote di Freud, Edward Bernays, nel suo libro sulla propaganda, coloro che riescono a manipolare l´opinione pubblica, creano progressivamente una forma di governo invisibile che dirige un paese. E il passaggio dal governo invisibile al totalitarismo è breve».
Lei ha una formazione filosofica, ha studiato a Pisa con Remo Bodei. Colpisce una sua affermazione per cui la filosofia avrebbe trascurato l´indagine sulla società. La filosofia deve sostituirsi alla sociologia?
«Anche se in questi ultimi decenni molti filosofi si sono trincerati nella loro torre d´avorio, dietro un sapere ultra-specialistico e lontano dalle preoccupazioni della gente, la vocazione della filosofia resta sempre la stessa: analizzare in modo critico l´epoca in cui si vive, cercando di fornire una serie di strumenti per ragionare e per decostruire i linguaggi e le immagini e i codici culturali e sociali che ci circondano. Lo scopo di un filosofo, per me, non è quello di “fotografare” la società come fanno i sociologi, né di dare delle ricette di vita, come fanno molti coach, ma di permettere alla gente di acquistare una distanza critica di fronte ai nuovi sofismi, per esempio quelli del management aziendale o del linguaggio dei media, e quindi di non essere più succubi delle ambiguità della lingua che rappresenta un´arma nella mani di coloro che hanno il potere politico, dei media, dei soldi».

(Autore: Antonio Gnoli, Repubblica 25/6/2009)



12/08/09

Massimo Cacciari, Hamletica


Risvolto

Nel grande dramma del secolo passato, nello scontro totale fra i Titani dell’epo­ca, l’uomo poteva ancora pensare di avere la propria parte. Il nuovo millennio sem­bra invece essersi aperto nel segno di u­na insicurezza che non attiene semplicemente alla situazione storica e sociale o alle condizioni psicologiche della persona, ma al suo stesso essere. D’altra parte il brancolamento attuale della Terra e il tramonto di ogni suo Nomos, dove ‘ruoli’, immagini e linguaggi si confondono nell’assenza di orientamento e distanza, sono stati possentemente ‘profetizzati’: tutto questo è già presente, per tracce, nel­l’Amleto di Shakespeare. E da lì discende fino a Kafka e Beckett. Nel ‘dialogo’ tra questi autori ‘fatali’, ricomposto per fram­menti, Cacciari coniuga le sue ricerche sulle ‘declinazioni’ della storia europea (in Geofilosofia dell’Europa e nell’Arcipela­go) con quelle sul rapporto tra nihilismo europeo e il linguaggio del Mistico che innervano i fondamentali Del­l’Inizio e Della cosa ultima.

(Hamletica, Adelphi, Milano 2009, euro 18)

01/08/09

Romani o musulmani: chi distrusse la biblioteca di Alessandria?

La recente «resurrezione» della mitica Biblioteca di Alessandria, cioè la ciclopica e meritoria impresa recentemente condotta a termine dal governo egiziano con il concorso di molte e benemerite forze internazionali (né il contrario sarebbe stato possibile) ha avuto anche un curioso – ma a ben guardare ovvio – contraccolpo nell’avvio, all’interno del mondo intellettuale egiziano, ma in senso generale arabo e musulmano, di una polemica condotta anche in toni aspri e violenti. La biblioteca d’Alessandria fu fondata dalla dinastia greco-egizia dei Tolomei, successori di un generale di Alessandro Magno, e arricchita nel tempo tra IV e I secolo a.C.
È un fatto che quella gigantesca e preziosa raccolta libraria, che presumibilmente riassumeva lo scibile della cultura antica, fu distrutta. Il bello è che non sappiamo quando, se cioè nel I sec. a.C., o alla fine del III, o durante il VII. Le due ipotesi che si confrontano sono note: la catastrofe fu dovuta a Giulio Cesare in un incendio che lo vide quanto meno corresponsabile, nel 48-47 a.C., ovvero al fanatismo degli arabi musulmani e in particolare del conquistatore di Alessandria, nel 642 d.C., Amr ibn al-Asi, nel 642 d.C.. Ma non va trascurato un episodio intermedio: la guerra dell’imperatore Aureliano (270-275 d.C.) contro Zenobia, nel corso della quale fu raso al suolo il quartiere alessandrino detto del Bruchion dove si trovavano la reggia e, al suo interno, la biblioteca dei Tolomei. Riassumendo, il corso più probabile degli avvenimenti secondo la critica storica, filologica e archeologica recente è questo: a causa o per colpa (ma non per volontà) di Giulio Cesare, è molto probabile che il venerabile edificio e il suo contenuto soffrissero di danni, l’entità dei quali non possiamo valutare, già nel 48-77; quindi, in pieno III secolo, ebbe luogo un nuovo episodio d’incendio; infine la nuova biblioteca, che era stata intanto ricostituita e che nel IV secolo si era andata arricchendo attorno alla celebre scuola filosofico-matematica alessandrina, fu distrutta e dispersa dai conquistatore arabi.
Nel 2008, il tema fu ripreso in un bel volume curato dall’attuale direttore della «nuova» Bibliotheca Alexandrina, Ismail Serageldin, What happened to the Ancient Library of Alexandria? (Leiden, Brill, 2008). Alcune voci di studiosi contenute in quel libro, tutte autorevoli, appaiono tuttavia preoccupate di riversare la responsabilità della sciagurata distruzione su Giulio Cesare, scagionandone il conquistatore musulmano e al tempo stesso riprendendo un’erronea congettura moderna che portava a ben 400.000 il numero dei manoscritti distrutti, che secondo Tito Livio sarebbe asceso alla pur spaventosa cifra di 40.000. Ma non si capisce come gli autori di quel volume possano aver steso una congiura del silenzio, o quasi, attorno al fatto che nessuna fonte autorevole antica parla di una distruzione cesariana e ai dati raccolti dall’archeologo Jean-Yves Empereur, e in quello stesso libro del resto ribaditi, dove si afferma con buoni argomenti di prova che l’incendio risalirebbe al II/III secolo d.C. (l’intervento di Empereur figura subito dopo nello stesso volume), o possano aver ancora preso sul serio l’opinione formulata nel 1972 da Peter Marshall Fraser, che nel suo celebre Ptolemaic Alexandria (1972) aveva affermato – in realtà a torto, come ha sottolineato anche di recente Luciano Canfora – che «in epoca imperiale», quando si parla di biblioteca alessandrina, ci si riferisce in realtà al Serapeo, ch’è altra cosa.
Insomma, le conclusioni di Seralgedin appaiono quanto meno forzate: non si ha nesuna autentica e sicura prova di una distruzione cesariana. Possediamo d’altronde la testimonianza di Strabone, che descrive il «Museo» come ancor funzionante, e bene, oltre vent’anni dopo la guerra alessandrina.
Insomma, il tema della distruzione della biblioteca è insidiato dalle passioni del momento. In tempi di fondamentalismo, i musulmani – anche se buoni e attenti studiosi – preferiscono evitar di ricordare che i primi seguaci del Profeta siano stati responsabili di un atto che ancor oggi e soprattutto oggi essi stessi a ragione giudicano barbarico. Per questo il bel libro di Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa (1986), che pur collocava la distruzione della biblioteca al tempo della guerra di Aureliano contro Zenobia, non gode di buona stampa nel mondo musulmano in quanto «colpevole» di ricordare anche i danni nel 642 d.C. Insomma, le distruzioni della biblioteca di Alessandria sarebbero state di sicuro due: nel III e nel VII secolo.
La distruzione araba del 642 di quel che restava o di quel ch’era stato ricostituito è narrata anche da fonti arabe tarde, la più importante è Abul-Faraj/Bar Hebraeus. Ma non si tratta solo, nella polemica odierna, di fondamentalismo musulmano. Nel libro coordinato dal direttore della biblioteca attuale il capitolo conclusivo porta la firma del grande Bernard Lewis, che vi ha riversato praticamente il testo di un suo saggio del 1990: tale capitolo s’intitola, eloquentemente, The Arab Destruction of the Library of Alexandria: Anatomy of a Myth.
Ma che le raccolte librarie greche presenti in Alessandria siano scomparse verso la metà del VII secolo è arduo a contestarsi. D’altronde, a confermarlo c’è un altro dato: il fatto che proprio da allora tutto il bacino mediterraneo abbia conosciuto una drastica interruzione dell’arrivo di scritti greci dall’Egitto. Vi fu insomma una cesura, che del resto venne egregiamente riparata a partire dal IX secolo circa in poi, quando il mondo arabo-musulmano (ormai divenuto anche siro-musulmano e irano-musulmano) recuperò appieno la tradizione ellenica, la studiò e nel corso del XII secolo giunse a trasmetterla anche all’Occidente.
Noialtri poveri cattolici, pur rivendicando i servizi resi alla cultura universale dalle tradizioni cristiane della patristica, della scolastica e dell’umanesimo, abbiamo cessato da tempo di negare o di nascondere le malefatte del fanatismo dei primi cristiani, quelli che incendiavano i templi degli antichi dèi e massacravano i pagani: quegli energumeni che chiusero la scuola di Atene e che assassinarono la virtuosa e dotta Ipazia. Quella cristiana fu una grande rivoluzione: e le rivoluzione conducono regolarmente ad eccessi, dei quali di solito i loro eredi, pur non sconfessandole in sé, si pentono e si vergognano. Anche l’esplosione dell’Islam nel VII secolo fu una grande rivoluzione. Sarebbe bene che i suoi eredi ne riconoscessero una volta per tutte, serenamente e francamente, i lati negativi. Il che non toglie affatto che, come tutti sappiamo (anche se qualche imbecille vorrebbe negarlo), alla cultura musulmana il mondo intero debba sentirsi straordinariamente debitore.

(Autore: Franco Cardini; fonte: Avvenire, 01 agosto 2009)