09/10/09

Dio e gli dèi. Egitto. Israele e la nascita del monoteismo

Perché il monoteismo biblico si autorappresenta come violento

JAN ASSMANN

Il brano che anticipiamo in questa pagina è tratto dal nuovo libro di Jan Assmann «Dio e gli dèi. Egitto. Israele e la nascita del monoteismo», uscito per i tipi del Mulino (pp. 213, euro 15). Settantun anni, professore emerito di egittologia a Heidelberg , Assmann è uno studioso che si muove sul crinale tra archeologia e antropologia culturale, come testimonia la sua ricca bibliografia: La memoria culturale, Potere e salvezza, La morte come tema culturale (tutti tradotti da Einaudi), Mosè l’egizio (Adelphi) e Non avrai altro Dio (il Mulino) in cui ha impostato il tema del monoteismo che riprende nel libro in uscita per chiarirne il senso e la vicenda storica.

Rivolgiamo ora la nostra attenzione alla Bibbia e soffermiamoci, tra circa seicento passaggi in cui si citano episodi di violenza che portano alla morte, su alcune delle tipiche scene di violenza che caratterizzano l’istituzione del monoteismo. \ Non sto accusando o criticando alcunché; voglio semplicemente capire. Mi sembra fuori luogo, inoltre, utilizzare tali brani contro il giudaismo o il cristianesimo, perché in queste religioni essi non giocano un ruolo significativo. Non vengono insegnati nelle yeshivot ebraiche né predicati dai pulpiti cristiani; il loro valore è puramente storico, in quanto testimoniano l’autorappresentazione della nuova religione nelle sue fasi iniziali. Il mio interesse per questi testi, tuttavia, non è storico, ma «mnemo-storico»: la domanda cui voglio dare una risposta non è «Perché il monoteismo si affermò in maniera così violenta?», bensì «Perché la storia della sua affermazione venne rappresentata e ricordata nella Bibbia con un così grande numero di scene di violenza? Perché i testi fondamentali che proclamano l’unicità esclusiva di Dio utilizzano il linguaggio della violenza?». La violenza non fa parte di una visione esterna ostile al monoteismo, ma di un autoritratto del monoteismo visto dall’interno. Ecco il problema che affronta questo capitolo. Perché il monoteismo biblico si autorappresenta come violento?

Da dove possiamo iniziare? I racconti della fuga dall’Egitto, indotta con la violenza delle piaghe inviate da Dio, ma ancor più la conquista della terra di Canaan, dipingono l’etnogenesi israelita e l’introduzione del monoteismo – di fatto due aspetti di un unico processo – a tinte estremamente violente. La questione del loro significato si pone poi in maniera ancora più pressante se questi episodi non vengono ritenuti storici ma simbolici, e quindi considerati saghe e leggende con le quali una società si costruisce o ricostruisce un passato in grado di dare senso e prospettiva alle finalità e ai problemi attuali. Apparentemente queste scene presentano una violenza esterna, una violenza diretta contro altri popoli, come gli egizi e i cananei. Una lettura più attenta dei testi biblici, tuttavia, rivela che la violenza interna, la violenza diretta contro il proprio gruppo e persino contro se stessi, gioca un ruolo di gran lunga più importante. Sotto molti aspetti (anche se non tutti) «Canaan» può essere visto come una rappresentazione simbolica del passato pagano di Israele e delle sue persistenti tradizioni pagane o sincretistiche. Il monoteismo, stando al suo autoritratto biblico, è una religione che tende alla violenza interna anziché esterna. È proprio questo a rendere lo studio dei testi di riferimento così stimolante, anche se essi hanno perduto ogni interesse nel contesto dell’esegesi giudaica e cristiana.

L’inizio è costituito dalla storia del vitello d’oro. Gli israeliti ricadono nell’idolatria: non riescono a sopportare la lunga assenza del loro capo Mosè sul Monte Sinai e lo credono morto; chiedono allora ad Aronne di fornire loro un’immagine che sostituisca Mosè, rappresentante di Dio, e che cammini davanti a loro guidandoli nel deserto. In segno di espiazione e castigo, Mosè avvia un’azione punitiva che viene descritta nei seguenti termini nel libro dell’Esodo (Es 32, 26-28): «Mosè si pose alla porta dell’accampamento e disse: “Chi sta con il Signore, venga da me!”. Gli si raccolsero intorno tutti i figli di Levi. Gridò loro: “Dice il Signore, il Dio d’Israele: Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente”. I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo».

Decisive sono le parole: «ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente». Qui la violenza è rivolta esplicitamente all’interno, allo scopo di infrangere i vincoli umani più stretti e intimi. La dedizione richiesta da Dio a ciascun individuo, come pure l’alleanza da lui offerta, superano e spezzano tutti i legami e doveri umani. A questo passo se ne può accostare un altro, non meno celebre, tratto dal Deuteronomio: «Qualora il tuo fratello, figlio di tuo padre o figlio di tua madre, o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso, t’istighi in segreto, dicendo: Andiamo, serviamo altri dèi, dèi che né tu né i tuoi padri avete conosciuti, divinità dei popoli che vi circondano, vicini a te o da te lontani da una estremità all’altra della terra, tu non dargli retta, non ascoltarlo; il tuo occhio non lo compianga; non risparmiarlo, non coprire la sua colpa. Anzi devi ucciderlo: la tua mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi la mano di tutto il popolo; lapidalo e muoia, perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore tuo Dio».

In questo caso è possibile sapere con certezza da dove proviene questo linguaggio della violenza: dai giuramenti di fedeltà assiri. L’impero assiro richiedeva una lealtà assoluta ai suoi vassalli, che dovevano essere disposti ad attuare forme di controllo come spiare amici e vicini denunciandoli e perseguendoli inesorabilmente nel caso in cui esprimessero pensieri sleali. Ma come è possibile, si chiede in un articolo recente Othmar Keel, studioso dell’Antico Testamento, collegare un simile linguaggio all’idea biblica di Dio? Come possono gli uomini immaginare che Dio pretenda la denuncia e l’uccisione dei propri amici, compagni e vicini? È facile capire come i testi e i concetti assiri vennero tradotti in ebraico ed entrarono nella Bibbia: alcuni re giudei dovevano utilizzare a loro volta questo linguaggio per giurare fedeltà al re assiro. Non è facile, invece, comprendere come questi concetti politici vennero tradotti in concetti teologici, e come Dio iniziò a ricoprire il ruolo di un despota assiro. Forse l’idea era quella di liberarsi dagli assiri e da qualunque altra forma di dipendenza entrando in un’analoga forma di dipendenza da Dio per mezzo dello stesso trattato che il re assiro aveva imposto. Forse, trasformando la politica assira in teologia biblica, gli ebrei speravano di trasformare la politica in religione e di liberarsi completamente della politica, di diventare indipendenti o almeno indifferenti a qualsiasi altra forma di oppressione politica. Ma essi non pagarono un prezzo troppo alto considerando l’idea assira di esclusività politica – non avrai altri signori al di fuori di me – come un modello di esclusività religiosa, e quindi politicizzando sia il concetto di divinità sia la nuova idea di religione?

(Fonte: www.lastampa.it)


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