11/12/10

Giuseppe Gorlani interviene sulla "geopolitica della Talvera"

Lo stimolante e interessante articolo “La geopolitica della Talvera” di Christian Rangdreul da noi tradotto dal francese e offerto all’attenzione dei nostri lettori, ha suscitato più di qualche reazione, sia nel segno positivo dell’assenso che in quello negativo del dissenso. Quella che segue è una riflessione con qualche valutazione critica di carattere dottrinale, ma nel complesso di grande equilibrio e rispetto, dell’orientalista Giuseppe Gorlani.

"Ho apprezzato lo scritto di Christian Rangdreul, Geopolitica della Talvera, poiché tocca, sia pur nell'ambito ristretto di un articolo, temi di grande importanza escatologica e soteriologica.

Innazitutto, trovo particolarmente illuminante quanto dice l'Autore circa la “geopolitica trascendentale”, a cui si accede per mezzo di: «Una facoltà intuitiva intermedia e mediatrice [...] un discernimento sottile che investe la geopolitica di una qualità anagogica». Tale facoltà, che può essere volta sia all'interno che all'esterno e che funge da ponte tra il sovrasensibile e il sensibile (“tra il mondo metafisico e il mondo fisico”), coincide con la buddhi, l'intelletto puro, il nous. L'Autore la cita, parlando di Shankara e della capacità di vedere «dietro la scorza delle cose» e sottolinea come essa sia oggi negletta e oscurata da una presa di posizione esclusivamente razionale. Personalmente sostituirei a “razionale” “pseudo-razionale”, poiché credo che la ratio, se utilizzata con impersonale onestà, conduca inevitabilmente alla necessità del superamento di sé nella buddhi.

Reputo inoltre del tutto condivisibile la riflessione sulla letteratura moderna, la quale, in conseguenza del suo essersi arenata nell’“umano troppo umano”, ha smarrito il ricordo dei “canali sottili” che la ricollegavano al mundus immaginalis, al mytos. Il passaggio dal linguaggio del mytos a quello del logos (quest’ultimo inteso non come intelligenza divina, ma come abilità discorsiva) ha segnato un drammatico abbassamento coscienziale nell’uomo.

Mi pare che anche la metafora della “Talvera” sia di grande interesse. Interpretarla quale “materia cosmica originale” rimanda al darshana (“prospettiva”) dualistico del Samkhya. Tuttavia, mi pare che nell'esposizione dell'Autore emergano alcune incongruenze. Se l'intero campo è “Talvera” ed esso è l'immagine del Cosmo, l'agricoltore-Logos quale "ordine” potrà portarvi? Il Kósmos, in quanto aspetto manifesto dell’Essere, è già ordine. La Talverà dovrebbe allora essere interpretata o come Cáhos, o come Principio causale (Arché), contenete in sé allo stato virtuale tutte le potenzialità, o come Immanifesto (Anarché); soltanto così avrebbe significato vedere simbolicamente nell'agricoltore il Logos ordinatore e creatore. E ancora: intendere la “Talvera” quale «materia cosmica originale» (Prakriti) e, nel contempo, quale uni-totalità, includente sia la parte coltivata che quella non coltivata, non è ammissibile. La materia cosmica è solo un polo della dualità principiale e in quanto tale non può essere definita: «Una sfera infinita il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo». Quest'ultima espressione è attribuibile unicamente all’Assoluto, ovvero a quell’Ineffabile che, pur includendo o emanado-sostenendo il Principio (Arché) e la dualità principiale Arché-Anarché (Kosmos-Cháos, Purusha-Prakriti, ecc.), li trascende.

Riflettere ulteriormente sul significato riposto di “Talvera” ci porterebbe assai lontano, ricollegandoci, tra l’altro, alle ricerche del grande agricoltore-filosofo-taoista Musanobu Fukuoka, di cui i Quaderni D’Ontignano (Libreria Editrice Fiorentina, Fi 1980) hanno pubblicato, nella traduzione di Giannozzo Pucci, il noto e importante volume La rivoluzione del filo di paglia. Secondo Fukuoka, l’agricoltura, almeno nella sua accezione convenzionale, viola e profana la Terra, manifestando nei suoi confronti una sfiducia ed una incomprensioni totali. In altre parole, l’uomo dovrebbe abbandonare il lavoro, inteso come sfruttamento e come sofferenza, e ritrovare la sua condizione di raccoglitore; il senso negativo del termine “lavoro” si fonda su una concezione irrimediabilmente dualistica dell’esistenza: da un lato l’uomo e dall’altro la terra, il cosmo, la natura, visti come oggetti di conquista e di speculazione. Secondo la sapienza tradizionale, invece, l’uomo non è separato dalla natura, bensì ne rappresenta quella consapevolezza totale o essenziale capace di risolvere la dualità Manifesto-Immanifesto in un superiore stato di coscienza non-duale.

Le intuizioni di Fukuoka non sono certo nuove, giacché attingono a radici profonde; emblematica in proposito mi sembra la seguente favola di Esopo: «Un tale si fermò davanti a un ortolano che innaffiava le sue verdure e gli domandò perché mai le piante selvatiche sono floride e robuste, mentre quelle coltivate sono gracili e stente. E l’ortolano gli rispose: “Perché di quelle la terra è veramente la madre, ma di queste è soltanto la matrigna”» (Bur, Mi 1951, 154).

Ritornando ai temi trattati da Rangdreul, mi paiono interessanti le sue considerazioni sul “Grande Gioco”. Non dubito che, come scrive Carl Schmitt: «La storia mondiale è la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze continentali e delle potenze continentali contro le potenze marittime». Si dovrebbe però considerare come tale contrapposizione nasca da un’incomprensione, poiché il pianeta Terra contiene in sé tutti e quattro gli elementi fondamentali, i quali cooperano al bene unitario. Suscitare pólemos là dove non ve ne sarebbe alcuna necessità è azione affatto arbitraria (adharmica) ed è caratteristica precipua dell’Era Oscura. Semmai i vari princìpi (tattva) costituenti la Terra e l’Universo, dovrebbero, riassorbendosi gerarchicamente gli uni negli altri, risolversi nell’Arché dal quale sono stati emanati.

Nel processo alchemico di reintegrazione nell’Essere, l’acqua mercuriale, infatti, non deve essere negata o combattuta, bensì fissata per mezzo dello zolfo, il fuoco spirituale. Si otterrà così l’Azoto dei Saggi, paragonabile alla buddhi: quell’aspetto sottilissimo del mentale capace di intuire il sovrasensibile.

Nel rispetto del principio dell’analogia universale e delle corrispondenze micro-macrocosmiche, il processo al quale si è poc’anzi accennato dovrebbe informare anche la politica, orientandola spiritualmente.

Proporre un dualismo irrimediabile non sarà mai la soluzione ultima. In un’ottica sapienziale, la lotta giusta da intraprendere non deve essere animata dall’intenzione di affermare drasticamente alcuni valori contro altri valori (benché in termini relativi, contingenti tale affermazione sia inevitabile), ma dall’aspirazione al silenzio, alla purificazione, allo svuotamento di tutto ciò che è doxa, semplice opinione, affinché si affermi da sé il Cammino che apre alla Voce di Dio, la Realtà non duale e assoluta che tutto emana o crea, sostiene e risolve.

In sintesi, ritengo che il punto di vista secondo cui terra ed acqua, tellurocrazia e talassocrazia siano irriducibilmente in guerra tra loro per la conquista dell’Hearthland sia valido soltanto in modo relativo.

Del resto, lo stesso Autore conclude il proprio articolo citando il processo alchemico della trasmutazione: la littera, per non restare “lettera morta”, deve essere vivificata dal Fuoco della Spirito. E che cos’è la littera se non il mercurio volubile, le acque, il ribollire impulsivo e caotico della mente, il potere irascibile di platonica memoria che il Logos deve fissare e trasmutare in Intelletto d’Amore?

In modo pertinente a quanto sovra esposto, Raniero Gnoli, riassumendo il pensiero di Abhinavagupta, scrive : «Queste stesse cinquanta lettere (quelle dell’alfabeto sanscrito) […] che qui, nella condizione nostra, sono morte, “corporee”, debbono essere restituite al loro stato originario di potenze, pensieri o cogitazioni divine» (Tantraloka, Adelphi, Mi 1999, p. LIV). Questa “resurrezione” della parola da “lettera morta” a soffio dello spirito – la stessa alla quale si riferisce Rangdreul – avverrebbe attraverso tre stadi via via più elevati: “voce Corporea”, il linguaggio pronunciato che si riferisce alla realtà sensibile; “voce Mediana”, la potenza di conoscenza, il linguaggio immaginante interiore; “voce Veggente”, la zona prediscorsiva del linguaggio. Oltre vi è la Voce Suprema (Para Vac) che pur espimendosi attraverso i tre stadi testé menzionati, li trascende."
(Giuseppe Gorlani)

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