05/01/11

Afghanistan (II parte)

di Giuseppe Gorlani

Ripropongo, ampliato e corretto, uno scritto che, all’inizio dell’invasione anglo-americana dell’Afghanistan, inoltrai alla mailing list “Est Ovest”, moderata da Massimo Onetti Muda. Purtroppo mi pare che esso conservi la sua attualità. Oggi, come alcuni anni fa, i media insistono a disinformare con la vergognosa connivenza di una gran parte degli intellettuali. Stiamo assistendo impotenti all’apoteosi della menzogna. Le voci, spesso assai qualificate e autorevoli, che si elevano per invocare il rispetto e l’aderenza alla verità dei fatti ci sono, ma vengono censurate dai più importanti canali di diffusione. Chi dissente, nel sincero ed umile tentativo di esercitare al meglio la ragione, viene immediatamente bollato come “razzista”, “negazionista”, “cospirazionista”, “filoterrorista”, “antisemita”, “antiamericano”, ecc. e, se si trova nella possibilità di mettere realmente i bastoni tra le ruote, viene fisicamente eliminato. All’opposto si dà spazio agli insinceri, ai lacchè che alla nobiltà d’animo hanno sostituito lo snobismo.

Per chi aspiri ad una vita di pace, creatività, onestà ed equilibrio, il mondo attuale è un koan assai impegnativo. Si tratta, infatti, di saper riconoscere senza ammorbidimenti lo stato di barbarie in cui esso giace, inevitabilmente sperimentando sentimenti quali sdegno, rabbia, disgusto, e, nello stesso tempo, di preservare la serenità interiore e l’integrità della propria aspirazione alla Conoscenza metafisica.


Disinformazione, presunzione e ignoranza segnano la china dell’Occidente

Urge la necessità di un riorientamento

Anni fa, consultando Sfoglia la notizia con l’intento di aggiornarmi sulla drammatica situazione afghana, venni colpito dal concentrato di ipocrisia e falsità trasudante da un articolo di Stella Pende, intitolato Com’era bella la mia Kabul. L’articolo in questione – definito «Uno straordinario reportage» – inizia snocciolando alcune madornali bugie: «Le foto di questo servizio raccontano di un mondo che pare lontanissimo; era il ‘72 e per le strade di Kabul le ragazze giravano vestite secondo i canoni occidentali. Il burqa, l’abito tipico che copre il viso e tutto il corpo, non era obbligatorio dal ’59 e veniva indossato solo dalle donne più tradizionaliste e povere». Le fotografie citate sono tre: la prima mostra tre ragazze di carnagione scura che passeggiano, non si capisce bene dove, vestite all’occidentale, con la minigonna; la seconda mostra di spalle una presunta donna poliziotto col volto scoperto; la terza ritrae tre infermiere in una stanza, anch’esse coi visi scoperti.

Come ho già avuto modo di dire in altri scritti, ho vissuto in Afghanistan per alcuni mesi, la prima volta a cavallo tra il ‘69 e il ‘70, la seconda nel ‘73. Durante il mio secondo viaggio, ho trascorso una quindicina di giorni a Kabul, percorrendola in lungo e in largo, ospite di alcuni mussulmani incontrati casualmente. Posso dunque dire con certezza di non aver mai visto una sola donna afghana vestita all’occidentale, né tanto meno con la minigonna: tutte, ricche o povere, indossavano il chadri (la burqa). Facevano eccezione alcune rare donne appartenenti a tribù zingare o a frange ridottissime di popolazione non islamica; e comunque, anche queste poche non vestivano di certo all’occidentale. Pertanto, le fotografie di cui sopra o sono false, o ritraggono donne non islamiche prezzolate all’uopo, o le uniche tre donne “illuminate” su una popolazione di quindici-diciotto milioni di abitanti. Tali fotografie, però, se poste nelle mani dell’astuto plagiatore occidentale, diventano ottimi strumenti per convincere le nostre masse deculturate che la stragrande maggioranza delle donne afghane si sta struggendo, più o meno in segreto, in attesa che affascinanti e armatissimi mercenari anglo-americani facciano piazza pulita di tutti i loro barbuti e odiosi mariti, padri, nonni e figli, liberandole dal servaggio ad una “spregevole” tradizione.

Persino una persona di alta sensibilità e cultura come Guido Ceronetti cade nel qualunquismo più plateale quando, nel corso di una conversazione tra amici, afferma: «Non appena gli uomini afghani si girano, le loro donne fanno spuntare da sotto il chadri la bandierina a stelle e a strisce». Quale offesa per l’intelligenza e per la sofferenza di queste donne e, in generale, di tutte le donne! Pare che la dignità, l’amore e la fedeltà ai propri cari, al proprio Paese e alla propria tradizione religiosa non vengano tenute minimamente in considerazione. Evidentemente per molti occidentali, ormai del tutto privi di ogni autentica spiritualità e nobiltà, l’attrazione per lo stile di vita dell’occidente moderno vale assai più dell’amore per l’identità tradizionale o di qualsiasi legame parentale, per non dire del restar saldi nel difendere la dignità ontologica. Ciò significa davvero considerare la donna alla stregua di una “cosa” o come un essere inferiore, un burattino guidato unicamente da istinti e da emozioni superficiali. Qualsiasi persona dotata di un minimo di immaginazione può comprendere come il corpo martoriato di un figlio, di un marito, di una madre o le rovine fumanti della propria casa non possano in nessun caso valere quanto un chadri. Vanitas vanitatum. Sembra ormai che i paesi che si reputano “civili” non sappiano più ravvisare nella donna una tra le più alte fonti di ispirazione, la “potenza” (shakti) creatrice, custode del fuoco interno. Se ne esalta l’aspetto nefasto e volubile, che involve labirinticamente nella contingenza, ma se ne ignora l’aspetto nobile, consentaneo al sentiero aureo del risveglio.

L’Occidente moderno sostiene ipocritamente di pregiare la Storia, ma in realtà non apprende da essa mai nulla e, anzi, la distorce ad usum delphini. Se imparasse a leggerla attentamente, constaterebbe come tutti i popoli si siano sempre ribellati all’invasore, innanzitutto in nome della propria tradizione religiosa, e poi per altri motivi: culturali, economici, ecc. Scegliendo un esempio tra molti (un esempio che ci riguarda da vicino), le genti del Regno delle Due Sicilie opposero una strenua resistenza all’invasione dei piemontesi – i quali non si peritavano di massacrare interi villaggi e di fucilare per rappresaglia uomini, donne, molti sacerdoti e persino bambine e bambini di nove, dieci anni –, proclamando la loro fede cattolica e la loro lealtà a Francesco II (si veda: Tommaso Romano, Dal Regno delle Due Sicilie al declino del Sud, Thule, Pa 2010).

Tornando all’articolo di Stella Pende, esso prosegue dicendo: «E d’improvviso l’Afghanistan e Kabul diventano il cuore del mondo. Un paese solo, perduto tra le montagne viola e le sue nevi d’inverno. Infiorato dai suoi papaveri peccaminosi nelle stagioni estive. Un piccolo e poverissimo mondo di pastori e villaggi affamati, di barbuti dittatori neri e cattivi, di talebani, di kalashinikov, di donne ombra prigioniere di abiti senza faccia e senza occhi. Un paese di macerie e di mine che solo trent’anni fa pochi sapevano trovare sulle carte geografiche. Ma com’era l’Afghanistan prima dei talebani? Com’era Kabul prima di Osama Bin Laden, che l’ha condannata a diventare la calamita della guerra?».

L’Afghanistan viene definito: «Un piccolo e poverissimo mondo di pastori e villaggi affamati»; che visione distorta! In primo luogo lo scenario naturale di questo Paese, con le sue vaste steppe e le sue montagne, comunica la sensazione dell’immensità, altro che “piccolo”; inoltre, non può essere considerato “poverissimo” o “affamato” il pastore a cui non mancano il cibo, gli affetti, una tradizione e la casa. Semmai poverissimi saranno gli occidentali moderni, tra i quali, in conseguenza della loro più totale mancanza di identità e di afflato religioso, si stanno diffondendo l’obesità, il suicidio, la depressione, la sterilità.

In quanto al fatto che l’Afghanistan sia diventato il cuore del mondo, direi che ciò è affatto vero: lì ora a morire con i barbuti cattivi e con i loro figli e donne ci siamo anche noi, c’è il nostro diritto-dovere ad essere quello che siamo, “diversi” se necessario, e il nostro disprezzo per stili di vita contrari ad ogni più elementare principio di saggezza e armonia. Per il resto, non sono stati di sicuro Bin Laden o i Talebani a ridurlo in rovina, bensì la Russia bolscevica, le lotte fratricide finanziate ed armate dai più ricchi e “caritatevoli” paesi occidentali o occidentalizzati, assai abili nella strategia del divide et impera, e la devastante aggressione anglo-americana in corso.

Cara Stella Pende, vuoi proprio sapere com’era l’Afghanistan prima che al governo salissero i comunisti, preparando l’invasione sovietica? Ebbene, era più o meno come i Talebani desiderano che sia, con l’unica differenza che, probabilmente, l’atmosfera era assai più rilassata, tollerante e gioiosa.

Per descriverci l’Afghanistan-paradiso, distrutto dall’arrivo degli “infernali” Talebani, l’autrice va a scomodare il famoso scrittore Dominique Lapierre. Questo personaggio, a dir poco ambiguo, che visitò quel Paese alcune volte tra il ‘51 e il ‘73, dice, sfoggiando un rassicurante stile lirico-romantico, di ricordarsi la capitale come «[…] una piccola città che respirava luce d’oro. Un’oasi di fresco, una piccola terra di cultura e di coraggio intellettuale. […] una città di donne belle e di gonne corte». Riguardo alle espressioni “donne belle” e “gonne corte”, mi si permetta una chiosa immediata: Lapierre era cieco o pazzo, oppure non si era allontanato oltre i cento metri dalla residenza reale.

Nel ‘73 lo stesso ripassò da Kabul a bordo di una Rolls Royce grigia e nera ed ebbe alcuni incontri con il re Zahir Shah, a proposito del quale scrive: «[La reggia era] fuori un grande mausoleo d’Oriente, picchi dorati e tetti di curve. Poi, varcata la soglia, ti ritrovavi a Versailles. All’entrata specchiere d’oro, nei salotti mobili bar rococò. Dovunque, a perdita d’occhio, tappeti bukara. Uno sull’altro. I valletti abbigliati all’occidentale offrivano champagne. Ma quello più sorprendente era lui, il re. Non c’è nulla di più occidentale di un orientale che è stato conquistato dall’Europa. E lui lo era. Aveva studiato a Parigi e la Francia gli era rimasta nel sangue. Parlava un francese raffinatissimo. […] Una sera ci parlò a lungo della situazione drammatica del suo paese, dei pericoli dei colpi di stato. Aveva ragione: appena sei settimane dopo aver pronunciato quelle parole venne detronizzato e per l’Afghanistan cominciò la lunga odissea che porta a oggi».

Dal modo in cui Lapierre ci descrive il re, si può ben comprendere come la lunga odissea dell’Afghanistan fosse già cominciata col re filo-occidentale e probabilmente ancora prima con l’infiltrarsi di sottili influenze corrosive.

Incidentalmente, noto come nelle parole di Stella Pende e di Lapierre risuonino accenti di ammirazione nei confronti della bellezza dell’Afghanistan. Vien da chiedersi se si siano mai posti la questione di come possa conciliarsi la bellezza di un Paese, che è bello proprio in quanto è quel che è, con l’occidentalizzazione livellatrice, inquinatrice e cementificatrice. Bellezza e uniformità sono realtà antitetiche; dove la prima prevale, la seconda regredisce, e viceversa. Quando tutto sarà stato standardizzato, quale bellezza si andrà ad ammirare? Probabilmente alcuni astuti imprenditori la imbalsameranno, parodiandola, in parchi con villaggi in stile tradizionale, abitati da donne-comparse velate, uomini barbuti e alcuni cammelli. E così la tradizione, trasformata in morto folclore, verrà commercializzata a beneficio di folle di turisti disanimati, vomitate dalla Macchina.

A questo punto, chiuso l’inciso, ritengo opportuno citare una testimonianza dell’Oriente tradizionale femminile registrata da Mircea Eliade, autore sulla cui serietà non credo si possano nutrire dubbi: «Ascoltate ora ciò che mi ha detto un’indiana [Shrimata Devi]. Trascrivo i frammenti di quanto ho udito un po’ di tempo fa, una sera di febbraio, su una terrazza di Bhoswanipur. – Le nostre sorelle d’Europa e d’America sono abituate a compiangerci. Credono che le donne indiane siano asservite negli harem, prive di qualsiasi distrazione e libertà, desiderose di affrancarsi. È vero che esistono casi del genere, ma non appartengono alla società indù. In realtà le europee vedono nella nostra vita un’esistenza priva di romanticismo, di avventura e di imprevisto. E ne concludono che siamo infelici. Ora, davvero ci sentiremmo infelici, afflitte, violentate, se dovessimo condurre la loro vita, nella libertà degli istinti e nella confusione sociale. In primo luogo, la libertà non ci interessa. È un’illusione dalla quale ognuno si libererà prima o poi. La nostra vita è determinata dalla sorte, dal karman, e ogni evasione non fa che stringere ancor più la catena del destino. D’altronde il romanticismo non ci sembra indispensabile alla felicità. Per noi la felicità non è un capriccio, un momento passeggero e irresponsabile, né una qualunque fatuità passionale o sentimentale. […] La beatitudine e la liberazione finale esistono in quanto rinunciamo agli effimeri capricci passionali – nulla più che affanni – per cercare di raggiungere la perfezione delle nostre madri. […] Ogni donna indiana sogna di imitare una delle eroine del Mahabharata o del Ramayana. Ognuna ambisce a divenire una dea. Con tali vertici davanti a noi, cosa ce ne faremmo della capricciosa libertà delle nostre sorelle europee? La getteremmo al vento come fiori di loto sul fiume, senza per questo abbandonare l’altare eretto a riva. Perché, vede, non esiste felicità passeggera, non c’è beatitudine che nell’eternità. Il resto è cinema e jazz» (M. Eliade, India, Bollati Boringhieri, To ’91, pp. 155-157).

Sulla base della mia esperienza personale, non ho incertezze circa la veridicità delle parole sopra citate. Credo che esse dovrebbero far riflettere i “missionari” (con tutto il rispetto per quelli che si ispirano sinceramente alla Parola evangelica) ansiosi di esportare i lati più deleteri – oggi preponderanti – della nostra “civiltà” e della nostra democrazia o, quanto meno, dovrebbero indurci a prendere le distanze da quelli che, in buona o cattiva fede, vanno proclamando la filo-occidentalità delle donne dell’Oriente tradizionale, ansiose di farsi emancipare da coca-cola, televisione, discoteche, supermercati e missili.

A volte ebbi l’onore e il privilegio di entrare in alcune case afghane e di vedere i volti delle donne; invece di scorgervi frustrazione e schiavitù, vi colsi bellezza, dignità e serenità. L’umiltà, la fierezza e il potere che i loro sguardi e i loro gesti emanavano mi riportavano ad una patria sia metafisica che umana. I loro visi, infatti, da un lato suscitavano in me una sorta di anamnesi archetipica al femminile, dall’altro mi riportavano alle madri, alle spose e alle figlie delle campagne italiane di sessanta o settanta anni fa in cui nacqui e crebbi.

In quanto occidentale moderno (provvidenzialmente non venuto bene), provai sollievo nel constatare che vi erano ancora tribù e popoli che non mostravano alcun desiderio di occidentalizzarsi, affermando con straordinaria fierezza la fedeltà alla loro tradizione e alla loro patria.

L’idea di patria (la Terra dei Padri e delle Madri, dei Mani, dei Lari) non è un’invenzione retorica moderna, buona solo per riempire le bocche dei farisei, ma è antica quanto l’uomo. La patria è il cielo, gli alberi, una certa luce pomeridiana, la memoria degli Antenati, le ossa dei trapassati, la memoria dell’abnegazione di quelli che l’hanno difesa sino alla morte, i paesaggi, l’armonioso intreccio dei suoni naturali con le voci degli uomini e degli animali domestici, i sorrisi, il coraggio e la solidarietà che traspaiono dagli sguardi che ci circondano, la forma della via spirituale, rivelata dall’Intelligenza cosmica, alla quale si è stati iniziati. Non a caso ogni popolo, ogni regione, ogni villaggio hanno dei numi tutelari (dèi, liberati, santi o genii loci) che ne rappresentano il destino e l’essenza. Gli occidentali moderni non percepiscono più tale idea come profondamente vera per il semplice fatto che vivono ormai immersi in un’enorme astrazione.

Quant’è triste e disperante non avere una patria, non sentirsi appartenere ad un popolo, non avere una famiglia, una terra o un bene comune al cui servizio porre le proprie qualità personali! Presso la tradizione del Sanatana-dharma – che ancora sopravvive in India, malgrado la devastazione portatavi dalla modernità – si crede che chiunque voglia incamminarsi sulla via della saggezza e della Conoscenza debba innazitutto servire e amare la casta (varna) o lo stadio di vita (ashrama) a cui appartiene; come a dire che non ci si può aprire all’Incondizionato-Immanifesto, senza prima comprendere e pregiare il Condizionato-Manifesto; non ci si può aprire al sovrarazionale senza aver soddisfatto ed esaurito il razionale.

José Ortega Y Gasset, nel suo volume La ribellione delle masse (SE, Mi 2001, pp. 102-105), sostiene che in Europa si è venuto ad affermare: «[…] un tipo d’uomo che non vuole dar ragione né aver ragione, ma semplicemente impone con risolutezza le proprie opinioni». Questo tipo d’uomo non solo non è interessato all’idea di patria, ma non è realmente interessato a nessuna idea, né a pensare o a dialogare. Ortega Y Gasset sottolinea altresì come una civiltà non sia altro «[…] che il tentativo di ridurre la forza a ultima ratio»; per contro, l’“azione diretta” dell’uomo attuale inverte tale ordine, proclamando la violenza come prima ratio o, meglio, come unica ragione: «Essa è la norma che si propone l’annullamento di ogni norma, che sopprime ogni azione intermediaria fra il nostro proposito e la sua realizzazione. È la Magna Charta della barbarie». Non penso sia difficile veder tratteggiato in queste riflessioni il modus operandi oggi in auge. L’invasione dell’Iraq, dell’Afghanistan e il genocidio del popolo palestinese (per non limitarsi che ad esempi eclatanti) ubbidiscono alla perversa logica di chi si rifiuta di ragionare, limitandosi ad imporre con la violenza le proprie esigenze racchiuse in prospettive ristrette.

Tornando al chadri, utilizzato per avvalorare le ragioni della guerra contro i barbari Talebani, ci si dovrebbe sforzare di capire che dietro a questo costume c’è una concezione del femminile inscritta in una particolare visione cosmogonica ed escatologica; non si tratta di pura e semplice sopraffazione dei maschi sulle femmine. Per certi versi le donne vengono nascoste nello stesso modo in cui si celano a sguardi indiscreti gli aspetti più intimi di sé. Lo stesso discorso vale per il sistema delle caste (fondato su concetti profondissimi quali il karma, la jati – la nascita –, lo svadharma) che ha permesso all’India tradizionale di mantenere la sua unità, preservando per migliaia di anni la grande ricchezza della molteplicità. A mio modesto avviso, presumere che il nostro sentire o il nostro pensiero siano gli unici veri e giusti, tanto da doverli imporre universalmente, è sintomo di una terribile, mortale malattia, riassumibile in una parola, “stupidità”. Quello che dev’essere ricercato è l’equilibrio, non l’omologazione o la soperchieria.

Alain Daniélou nella sua nota opera Siva e Dioniso – La religione della Natura e dell’Eros (Ubaldini, Roma ’80, p. 14), scrive: «La felicità dell’uomo e della sua sopravvivenza dipendono dall’attuazione del posto che egli occupa tra gli esseri viventi come specie e tra gli uomini come individuo. Se cerca di attribuirsi un ruolo che non è il suo nella società, diventa un nemico dell’umanità. Se è un predatore, un nemico delle altre specie, diventa il nemico degli dèi, il nemico della creazione».

Spiace dirlo, ma le parole testé citate sembrano ritrarre con precisione l’Occidente moderno. Siamo diventati nemici del mondo, dispensando dovunque sofferenza, falsità, corruzione e disarmonia. Manifestando la più madornale ignoranza e presunzione, abbiamo posto il criterio del lucro a mensura universale; in altre parole abbiamo irrazionalmente assolutizzato una veduta relativa. Questa realtà non cambierà – ed anzi produrrà ancor più violenze e tormenti inimmaginabili – sino a che l’Occidente (in primis l’Europa) non ritroverà il suo posto nell’Ordine della cose, riorientandosi in senso razionale e indi metafisico.

Che cosa significa ques’ultima espressione? Secondo me, tanto per cominciare ci si dovrebbe rendere conto che il nostro essere non si esaurisce con l’apparire e lo scomparire del corpo, né con l’agire immediato, né con l’esercizio massificato del mentale dicotomico, poiché, se così fosse, la vita umana si ridurrebbe ad un grande strepito offerto al nulla. Sarebbe pertanto indispensabile mobilitare le proprie energie migliori per interrogarsi nell’intimo, senza pregiudizi, reimparando a contemplare, e cioè ad abbattere sub specie interioritatis le barriere tra soggetto e oggetto, interno ed esterno, io e gli altri, riaffermando e riconoscendo come centrale un significato superiore dell’esistenza. Ciò implicherebbe, oltre al ripristino dello stato di “persona”, il recupero corretto della funzione dialettica: in quanto puro Essere siamo tutti identici (o, per venire incontro alle provvidenziali “teologie della Differenza”, partecipi della natura divina), in quanto monadi divenienti siamo tutti diversi, poiché riflettiamo l’Unità della consapevolezza con gradazioni infinite di intensità.

La pseudo-spiritualità dell’Era oscura, figlia dello scientifismo, del collettivismo e di interpretazioni distorte degli antichi insegnamenti apofatici, occidentali e orientali, scavalca la discriminazione precedente e capovolge la corretta ottica sapienziale, pretendendo di appiattirci nell’uguaglianza indiscriminata o di annullarci, “olisticamente”, nell’intero, pur esaltando l’individualità contingente, di cui il già menzionato Ortega Y Gasset (op. cit. p. 21) scrive: «Ha soltanto appetiti, crede di avere solo dei diritti e non crede di avere obblighi: è l’uomo privo della nobiltà che obbliga – sine nobilitatesnob». Tale perversa precettistica vale per gli uomini come una nebbia o una droga che impedisce loro di vedere chiaramente. In India la si è sempre chiamata avidya, ignoranza principiale; essa esiste sin dall’inizio della Storia, ma oggi, in Occidente, ha raggiunto la sua massima espressione.


Nessun commento:

Posta un commento