18/05/12

Echi e commenti: "Considerazioni sulla recensione a “Il Filo Aureo”


La recensione al libro “Il filo Aureo” ha provocato un’interessante e animata discussione che ora prosegue con un nuovo e compendioso scritto che l’autore, Giuseppe Gorlani, ha elaborato -in verità con generosa mano tesa- in risposta alle nostre domande e obiezioni. Il testo, ricco di dottrina ma non privo di problematicità e di nodi critici irrisolti, merita di essere letto e preso in esame con molta attenzione. Nei prossimi giorni, Deo juvante, promettiamo di tornare sull’argomento con una nostra personale riflessione finale.
A.L.F.

di Giuseppe Gorlani

   Nella sua recensione Aldo La Fata, oltre ad evidenziare alcuni punti critici che tenteremo di chiarire, solleva un interrogativo: «Esiste una metafisica cristiana?». La risposta non può che essere affermativa. Per averne la conferma, basta leggere l’importante opera di Silvano Panunzio, Contemplazione e Simbolo. In particolare, il capitolo Il Mistero Supremo riveste una grande importanza, poiché in esso l’Autore riflette con competenza e profondità sui massimi Misteri. Cominciamo con la dibattutissima questione dell’Uno e dei molti. Panunzio rileva il “limite” del “Solo col Solo” plotiniano, cui attinge l’“Unico-Uno” (Einic-Ein) di Eckhart, o dell’Uno senza secondo di Shankara: «La Monade spiega L’Ordine Ascendente della Metafisica unitaria, o l’odós anà dei Misteri […] ma la Monade non spiega l’Ordine Discendente della Metafisica totalitaria, o l’odós katà dall’Uno al Molteplice e viceversa». Più precisamente, la Monade di Plotino e l’assoluto non dualismo (kevala-advaita) di Shankara sarebbero incapaci di giustificare lo «sdoppiamento dell’Unità» senza il quale non si possono spiegare il come e il perché dell’Emanazione o della Creazione. Per contro, S. Giovanni nel suo Vangelo «tutto pneumatico», per Clemente parla di un Omnes Unum, ovvero di un Totum Unum: «un Uno-Tutto, e non già un’Unità unica, sconfinatamente sola».
   La novità essenziale del Cristianesimo consisterebbe quindi nell’Unitotalità, equiparabile all’Én kaí Pan dei Misteri o al Quarto stato (caturtha) dell’Advaita Vedanta. Dall’assunzione di simile veduta deriva una domanda di capitale importanza: «[…] perché l’asceta deve raggiungere il nirvana (“estinzione”, cancellazione) o il kaivalya (assoluto “isolamento”) […]? Se Dio si manifesta, se il Primo Principio si sdoppia, perché l’uomo, l’asceta, nell’ordine ascendente, dovrebbe toccare il Divino nel puro isolamento e cioè nel punto che Dio stesso supera nell’ordine discendente? […] Insomma, Dio è l’Uno-Tutto e l’Uomo dovrebbe cancellare ogni cosa? E come poi, se l’Uno-Tutto lo sovrasta d’ogni parte?».
   Nello stesso capitolo si chiarisce il significato dell’“apparire” del Manifesto, si esamina il discorso importantissimo del vuoto e del pieno, ma soprattutto si tenta di indagare i sommi misteri della Tetraktís e più ancora della «Divinissima Endiade»: Én dià dùoin: “Uno mediante Due”. Nell’Endiade risiederebbe il Mistero supremo: il Mistero dell’amore del Padre che si manifesta come Cristo, il rivelatore massimo. Secondo la prospettiva lumeggiata da Panunzio: «Questi [il Padre] preferisce, a chi non si sia mai scostato dall’Uno, chi si è calato nella terribile esperienza dei Molti per riconsacrare ogni cosa a quell’Uno che è anche il Gran Tutto».
   Fondandoci sulla nostra modestissima comprensione, riteniamo che questo capitolo sia davvero ispirante e stimolante, ma non privo di limiti o di nodi insolubili. A nessuno è dato spiegare l’inspiegabile con la parola. Per esempio, circa l’ultima citazione, vien da chiedersi: «Com’è possibile scegliere di non scostarsi dall’Uno per immergersi nei Molti?». In realtà, volenti o nolenti, siamo immersi nella molteplicità; la questione dunque non starà nell’accettarla o rifiutarla, bensì nell’orientarla verso l’Alto, armonizzandone le contrapposizioni ed offrendo noi stessi al Sublime. Stando così le cose, all’uomo aspirante alla Verità spetterebbe l’odós anà, a Dio o all’uomo illuminato l’odós katà. E ancora, Panunzio paragona “i figli degli uomini” a “specchi” che Dio stesso produce poiché ama riflettersi in essi. Chi siamo dunque noi? Se fossimo “specchi”, la nostra alterità col Padre sarebbe irrimediabile; ci sembra pertanto più calzante l’immagine delle scintille che, se pur infinitesime rispetto al Fuoco assoluto, partecipano della sua stessa natura. In un bel saggio intitolato Cosmologia perenne, Titus Burckhardt sostiene che la differenza tra la rappresentazione biblica della creazione e la dottrina plotiniana dell’emanazione può facilmente essere superata: «[…] cos’altro può infatti significare l’affermazione biblica che Dio ha creato il mondo “dal nulla” (ex nihilo), se non che Dio non ha plasmato il mondo da alcuna materia esistente al di fuori di sé? Ma, se il mondo non ha alcuna realtà oltre a quella derivatagli da Dio, esso è in questo senso il suo riflesso o la sua emanazione».
   Riguardo poi alla “novità” cristiana, Panunzio ammette che sulla questione del manifestarsi per amore altre tradizioni sapienziali coincidono; tra queste, cita l’Hinduismo tantrico e, più in generale, lo Shaktismo. A parte il fatto che semmai sarà l’Hinduismo tantrico a contenere lo Shaktismo e non viceversa, va sottolineato come il Tantrismo sia pre-vedico e dunque appartenga a quell’“India notturna” che, secondo il Nostro, avrebbe finito con l’inquinare la pura visione Arya, patriarcale, con dottrine di ordine inferiore. Troviamo in ciò consonanze con l’abbaglio patito da Evola e per un approfondimento rimandiamo al saggio contenuto ne Il Filo Aureo: Julius Evola e la Tradizione del Sanatana Dharma.
   La verità di Dio come Uno-Tutto e il Mistero dell’Endiade non sono un’assoluta novità cristiana, ma appartenevano già al pensiero religioso pre-ario dedito al culto di Paramashiva e della triade in esso contenuta: Shiva (il Signore universale), shakti (l’energia che lega, pasha) e pashu (la moltitudine delle anime individuate). Ciò non toglie ovviamente nulla alla validità della riproposizione Cristiana: semplicemente la priva della pretesa di detenere in esclusiva le chiavi della Verità ultima. La ragione ci proibisce di pensare ad una Verità assoluta che si riveli soltanto in un punto preciso del tempo e dello spazio; per essere assoluta essa dev’essere sì libera di rivelarsi in modo privilegiato, ma nello stesso tempo anche onnicomprensiva e quindi presente in ogni istante ed eternamente accessibile; diversamente sarebbe relativa. Del resto, lo stesso Panunzio ammette che: «La pluralità degli esseri, e per essa degli uomini, non è un’apparenza irreale, ma una realtà. Certo, una realtà solo relativa, ma pur sempre fornita, e preziosamente dotata, di spirituale concretezza». Interessante l’accenno alla “realtà relativa”. In tutta sincerità non ci sembra che il Vedanta dica qualcosa di molto diverso: se l’Atman non fosse immanente nel jiva, come potrebbe questi aspirare alla Liberazione? La tanto criticata Maya non è il figlio di una donna sterile, ma un grado della Realtà. Piuttosto è il Vacuismo Buddhista, con la sua negazione decisa di ogni io o Sé, a porsi in una condizione di incomprensibilità.
   In sintesi, ci sentiamo di affermare, sia pur nella consapevolezza della pochezza di ogni dire, che, in linea di massima, nel Cristianesimo i princìpi metafisici vengono espressi con un linguaggio figurato (metaforico), suscitatore di bhakti, mentre invece nell’Hinduismo di matrice shivaita, tantrica o upanishadica, gli stessi vengono enunciati con un linguaggio filosofico, razionale, stimolante sia jnana che bhakti.
   Ci si consenta una nota personale. Quando in età ginnasiale lo scrivente frequentava un liceo diretto da sacerdoti, gli si affacciavano alla mente alcuni interrogativi concernenti la natura dell’“io” e della divinità: dove ero prima di nascere, dove sarò tra un milione di anni? Come posso muovermi da “qui”, dato che, sebbene il corpo si sposti e muti, “Io” sono sempre presente, anche nel sonno profondo senza sogni? Qualora si riconosca che Dio è onnipresente, perché lo si cerca “là”, nel divenire e non “qui”, dentro di sé? Se però osavo porre domande venivo subito tacitato aspramente, poiché simili discorsi esulavano dal catechismo e di conseguenza non avevano alcun significato. Alla fine della permanenza in quella scuola, il rettore disse ai miei genitori: «Vostro figlio è un paesaggio squallido». Si sarà trattato di “sfortuna”, sta di fatto che la fame spirituale di quel giovane non ottenne alcuna soddisfazione in ambito ecclesiastico.
    Soltanto a 23 anni, in una mattina di sole, seduto in aperta campagna, aprendo il volume Upanishad antiche e medie, a cura di Pio Filippani Ronconi, d’improvviso riconobbi, magnificamente espressi, gli stessi pensieri che in modo frammentario e disordinato mi avevano occupato la mente:
«L’atman onnipervadente che, come il burro nel latte, è contenuto [nel Sé individuale]. La radice della conoscenza dell’atman e dell’ascesi, questa è la suprema dottrina segreta del brahman […] Om! Questa è la verità. Om!» (Sve. Up. I 16);
«Il Sublime è il volto, il capo e il collo del Tutto; egli abita nelle caverne [dei cuori] di tutti gli esseri, egli permea il Tutto; perciò è onnipresente, egli, Shiva» (Idem, II 11).
«”Portami un frutto di quel nyagrodha”, disse il padre. “Eccolo, signore”, rispose il figlio. “Taglialo”, ordinò il padre. “Eccolo tagliato”, rispose il figlio. “Ebbene, spezza uno di quei grani, ordinò il padre. “Eccone uno spezzato, o signore”, rispose il figlio. “Che ci vedi dentro?” “Nulla, o signore”. Il padre allora gli disse: “Questa sottile essenza che sfugge alla tua percezione, è grazie a questa sottile essenza che questo albero, per quanto grande esso è, si innalza al cielo. Credimi, mio caro, Questa sottile essenza anima tutte le cose; essa è l’unica realtà; essa è l’atman. Tu stesso, o Svetaketu, lo sei”, “Signore, istruitemi ancora”, “Sia pure!”» (Cha. Up. XII 1-3).
   Con ciò non si vuol sottrarre valore alla nobilissima Tradizione Cristiana, ma semplicemente sottolineare l’esistenza di più lignaggi spirituali; in genere ogni uomo appartiene al lignaggio trasmessogli dai genitori, ma talvolta può accadere – soprattutto in momenti anormali come quello attuale – che si scopra di appartenere ad un’altra Tradizione.
   Ne Il Filo Aureo non abbiamo neppure citato Contemplazione e Simbolo, sia perché si è limitato il proprio impegno al tentativo di tracciare un filo d’Arianna tra poche discipline orientali, sia per la semplice ragione che leggemmo e rileggemmo in modo consecutivo l’opera di Panunzio più di venti anni fa e perciò non vi abbiamo pensato.
   Veniamo ora al primo tra i due punti critici evidenziati da La Fata: «Le osservazioni sui difetti e limiti storici e, diciamo così, “istituzionali” del cristianesimo il dogmatismo, l’esclusivismo, la pretesa di supremazia, il monopolio della verità non vengono bilanciate da altrettante osservazioni in positivo con il risultato di dare al lettore l’impressione ora di avversione, ora di indifferenza o disinteresse nei confronti di questa religione. Ciò non sembra deporre a favore di una discriminazione esercitata a fondo su questo soggetto che invece, a nostro avviso, non può essere trascurato o tralasciato quando si parla di “verità universale” in un contesto europeo».
   Innanzitutto, chiariamo come ne Il Filo Aureo non si parli di religioni, ma di metafisica. Secondo la Tradizione del Sanatana-dharma, con il termine “metafisica” ci si riferisce a quell’Ineffabile che sta al di là dell’ontologia, pur non negandola. Sicché, per affrontare la metafisica si deve aver preliminarmente acquisito ed esaurito il discorso religioso. In modo emblematico, nella Prashna Upanishad i sei discenti che si avvicinano al rishi Pippalada per chiedere una guida nella ricerca del Brahman supremo sono già stabiliti nel Brahman non supremo. Gli aggettivi “supremo” e “non supremo” non hanno un valore assoluto, ma vengono utilizzati solo per necessità di esposizione. Ai sei sadhaka viene chiesto altresì un anno di silenzio preliminare e di servizio disinteressato al maestro. Come a dire che sono indispensabili precise qualificazioni per accedere alla metafisica. Un tempo i Grandi Misteri metafisici venivano custoditi con cura e trasmessi dalla bocca del maestro all’orecchio dell’aspirante; oggi, invece, circolano liberamente. Ciò, se da un lato è provvidenziale, dall’altro è pericoloso e deleterio, poiché, in numerosi casi, amplificano l’“io” impermanente, invece di risolverlo o sublimarlo.
   Ne Il Filo Aureo i riferimenti all’Islam e alla Cabbala non sono più di due o tre, mentre i riferimenti al Cristianesimo sono abbastanza frequenti, benché incidentali. Sostenere tuttavia che essi privilegino una visione negativa del Cristianesimo, sottolineandone l’“esclusivismo”, il “dogmatismo”, “la pretesa di supremazia”, ecc., non ci sembra corretto.
   A pagina 110, nella nota n. 43, citiamo un brano tratto dalla rivista La Tradizione Cattolica, in cui, secondo noi, vengono elencati quelli che La Fata definisce  «i difetti e limiti storici e, diciamo così, “istituzionali” del cristianesimo»; indi osserviamo come la religione Cattolica stia oscillando tra il rischio di cadere nell’«irrigidimento in dogmi e prospettive cultuali la cui forma, ormai obsoleta, si sta rivelando contraria all’intelligenza» (“irrigidimento” che il Concilio ecumenico Vaticano II ha tentato di correggere) e il pericolo altrettanto grave di perdere, come conseguenza di un’ansia eccessiva di ammodernamento, la propria identità liturgica e teologica.
   A pagina 122, nota n. 3, laddove Daniélou sostiene che «le religioni devono sforzarsi di chiudere la porta alla liberazione», utilizzando lo strumento del dogmatismo, e che l’abbandono di ogni religione e di ogni legge morale sia una sorta di conditio sine qua non alla liberazione, si replica che tale riflessione è un’estremizzazione inaccettabile, giacché: «il Liberato, pur trascendendo la dimensione religiosa, non la nega» e nemmeno vi si oppone o cerca di distogliere da essa chicchesia. Si consideri come nello Yogadarshana i primi due passi o mezzi (anga), yama (autocontrollo, proibizioni) e niyama (osservanze), siano costituiti da un insieme di precetti etici e morali. Un saggio non sarebbe tale se si opponesse tout court all’aspetto exoterico della religione. È giusto stigmatizzare e, se possibile, correggere, le barbarie in cui spesso cade l’exoterismo, ma è fondamentale preservarne l’aspetto provvidenziale.
   A pagina 51, nota n. 19, accenniamo al valore del dogma della Trinità che adombra il mistero della Non-dualità.
   A pagina 172, si parla della grande importanza dell’aspetto personale del divino e, nella nota n. 59, citiamo Rudolf Otto, il quale giustamente sostiene: «I maestri dell’est e dell’ovest sono d’accordo sull’esigenza che “Dio scompaia”. Ma sono anche d’accordo nell’essere fedeli teisti nel loro ambiente: la loro mistica si innalza su un fondamento teistico». Questo concetto viene riproposto più volte, implicitamente ed esplicitamente, ne Il Filo Aureo. A differenza di Marco Vannini (cfr. in particolare La religione della ragione, Mi 2007), noi non riteniamo che le religioni, i miti o la devozione al Dio personale siano “superstizione”.
   A pagina 30, prendendo lo spunto da un verso di Dante, si accosta S. Francesco alla Gayatri, il mantra vedico per eccellenza che in India viene recitato dai “due volte nati” al sorgere del sole.
   A pagina 140, nota n. 56, riflettendo sulla nefanda pratica degli espianti e trapianti di organi vitali, si constata con rammarico come la Chiesa Cattolica, accettando l’approssimativa definizione di “morte cerebrale”, non si erga a difesa della dignità dell’uomo e rinneghi o, quanto meno, sottovaluti la tradizione della “buona morte”. Spesso non si può che convenire con le dichiarazioni della Chiesa riguardanti fenomeni di degenerazione sociale e spirituale (aborto indiscriminato, matrimoni tra omosessuali, ecc.), ma talvolta, a fronte di temi di non poca importanza, si ha come l’impressione di osservare una Chiesa “imbavagliata”.
   In più punti, inoltre, ci si sofferma sul concetto di libero arbitrio, citando il prezioso lavoro di Jean Phaure, che i lettori del Corriere Metapolitico conoscono bene, e si fanno riferimenti all’insegnamento Cristiano.
   Riguardo invece al fenomeno della conversione da una religione all’altra, non è un tema che abbiamo affrontato nella nostra ultima opera. Esso però viene in parte trattato ne Il Segno del Cigno – Sulle tracce dell’Ineffabile, (Rimini 1999), in saggi quali: Fame d’Oriente, Occidente e Sanatana-dharma, Quale Buddhismo, Unità e uguaglianza. Per l’ordinario – fatte salve alcune giustificate eccezioni – non apprezziamo le conversioni orizzontali; piuttosto, se di conversione si vuol proprio parlare, ci si deve riferire ad un innalzamento verticale, sovrareligioso.
   E infine, veniamo al secondo punto critico, relativo all’ultimo saggio, Riflessioni sull’Essere. Replichiamo a La Fata che la verità secondo cui la nostra unica certezza è che “l’Essere È” non va rigettata frettolosamente, anzi, secondo chi scrive, essa è quanto di più prossimo all’Essenza. Il Dio biblico non si manifesta forse a Mosè, nel Libro dell’Esodo, dicendo “Io Sono Colui che Sono”? E Gesù non ripete forse per ben quattro volte “Io Sono” nel Vangelo di Giovanni?
   Nel Notiziaro del gruppo cristiano Kairós si legge: «Kairós è il tempo di Dio […] è il tempo presente, l’istante in cui si può cogliere la presenza divina […] Dio non va cercato fuori di noi, ma dentro di noi […] Per tornare al centro e percepire Dio nel silenzio della nostra interiorità, oltre ai sacramenti e alla liturgia, sono di grande aiuto la preghiera e la meditazione». A parte il fatto che, metafisicamente, Dio non sarà mai oggetto di percezione, mi colpisce come, anche nei pensieri sopra riportati, si ribadisca l’importanza del silenzio.
   La saggezza realizzativa d’Oriente e d’Occidente ci insegna che un conto è pensare, credere, divenire, aspirare, praticare questo o quel rito, pur validissimi, altro è tacitare la mente, immergersi nel silenzio, affinché Dio si riconosca in noi identico a se stesso. La prima modalità appartiene alla via lenta, progressiva, la seconda alla via diretta. A tale vertiginosa identità – che implica il “rinnega te stesso” evangelico – ci si arriva nudi, spogliati di ogni cogitazione o dottrina. Johann Valentin Andreae, nella sua celebre opera Le nozze chimiche, fa scrivere a Christian Rosenkreutz, dopo che questi ha bevuto la bevanda del silenzio – Haustus Silentii – ed ha raggiunto il grado di Cavaliere della Pietra d’Oro: «Summa scientia nihil scire».
   Ci si rende conto di quanto sia pericoloso riflettere pubblicamente sui grandi Misteri metafisici, tuttavia è la temperie dell’Era Oscura che ce lo consente, anzi, che ce lo impone. Si consideri come, tra l’altro, la diffusione de Il Filo Aureo resterà circoscritta a un numero limitatissimo di persone: i temi che vi si trattano non sono appetibili alle moltitudini smarrite dell’oggi. Ma anche se non fossero smarrite, in preda al più disperato nichilismo, non sarebbero ugualmente adatti alle maggioranze. E qui veniamo al significato di religione e alla verità che custodisce. Essa è provvidenziale nella misura in cui mostra all’uomo il Bene eterno, la salvezza dall’identificazione nell’effimero ed è paragonabile al dito che indica la luna o al rametto incandescente che svanisce nel fuoco da esso stesso acceso. Naturalmente l’essenza della verità della luna o del fuoco dev’essere contenuta nella religione, tuttavia questa, in ultima istanza, non può che autorisolversi nell’“esperienza” diretta (abbiamo aggiunto le virgolette per segnalare l’inadeguatezza del vocabolo) dell’avvicinamento o persino dell’identità con l’Essere.
   Max Müller definì l’atteggiamento religioso dell’indiano con il termine “enoteismo”: la facoltà di votarsi con totalità al Divino, appoggiandosi alla prassi di una determinata dottrina o religione, pur restando consapevoli che lo stesso Dio a cui ci si rivolge può, nella sua misteriosa trascendenza immanente, rivelarsi ad altri uomini o altri popoli in forme differenti, altrettanto efficaci.
   «La Verità è una sola: i saggi la chiamano con vari nomi. Vi è un solo Dio, una sola Verità assoluta e una sola Esistenza. Le genti di differenti paesi adorano Dio sotto vari nomi e diverse forme. Ognuno di questi nomi e forme è una faccia dell’Infinito, ed è uno con l’Infinito» (Srimad Bhagavatam IV). «Un giorno, una contadina siciliana, moglie di un fattore presso il quale lavoravo come vendemmiatore, vedendo che digiunavo ogni sera, mi disse: “Ho capito,  Giuseppe, questo è il tuo modo di pregare… Ma, quale Dio preghi?”. Le risposi: “Ce n’è più d’Uno?”. Ella assentì, e i suoi occhi si illuminarono di comprensione» (da Fame d’Oriente, in op. cit.).
   Sino a pochi secoli fa non avremmo potuto esternare le riflessioni contenute nel presente scritto; ora è possibile e ciò è un bene; peccato soltanto che l’illusione della modernità abbia reso quasi tutti sordi e non soltanto alle riflessioni metafisiche, il che non sarebbe gravissimo, ma anche – e ciò è davvero drammatico – all’orientamento sacrale e religioso.
  

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