21/12/12

La truffa del signoraggio in un romanzo



“Esistono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che si insegna ad usum Delphini e la storia segreta, in cui si rinvengono le vere cause degli avvenimenti: una storia vergognosa.” (Honoré de Balzac, Commedia umana)

Per le edizioni Tabula Fati di Chieti è uscito un romanzo-inchiesta di Cosimo Massaro intitolato “La Moneta di Satana”. L’autore vive e lavora a Manduria in provincia di Taranto dove svolge l’attività di disegnatore d’interni, ma è un uomo dinamico di molteplici interessi, scultore e pittore, nonché maestro di arti marziali e discipline orientali.
Un romanzo di parte, uno scritto militante, un testo anti-mondialista, anti-massonico, contro l’usura. Un romanzo-inchiesta che svela la truffa del signoraggio.
La trama è chiara, semplice, d’impatto. Un popolare giornalista della RAI Enrico Costa viene brutalmente ammazzato a causa di una sua inchiesta giornalistico-televisiva sulla grande truffa del signoraggio e sul dominio globale di banche e massoneria. L’omicida è “il Biondo” un killer professionista legato alla mafia e che entra nel sodalizio massonico. Qualcosa va male, si salva Alessandro Matus archeologo che stava aiutando Costa. Nella storia entra anche Sara figlia di Enrico Costa.
Il romanzo si dipana tra investigazioni poliziesche, depistaggi, inseguimenti e sparatorie.
Un romanzo da diffondere soprattutto tra i giovani, perché in maniera chiara si affrontano le ricerche e le rivelazioni sulla truffa del signoraggio. L’abc per comprendere in maniera esaustiva lo studio e l’azione del Prof. Giacinto Auriti.
Oltre a citazioni importanti all’inizio di ogni capitolo, che vanno da frasi di capi indiani, a frasi del poeta Ezra Pound, si citano articoli e studi della scuola auritiana. In una fase importante del libro vi è un chiarificatore dialogo tra il killer e il maestro massone, l’uno estasiato dal mistero, l’altro “storico” della congiura massonica. Si intrecciano nel tutto legami forti e sotterranei tra istituzioni, malavita e ordini segreti.
Mi piace pensare che questo agile testo in qualche modo possa esser letto anche da quel grande rivoluzionario di Guardiagrele, amico degli umili e nemico del potere usurocratico e bancario. Un passo famoso nel libro è viatico della lotta per la moneta di popolo: “Oggi la moneta nasce di proprietà della banca che la emette prestandola, noi vogliamo che nasca di proprietà dei cittadini e che sia accreditata ad ognuno come “reddito di cittadinanza” …”.
Continuando, la storia d’amore tra Sara e Alessandro, sembra quasi un insegnamento, una liberazione dall’ignoranza voluta dal sistema capitalista. L’amore tra i due diventa reale pian piano che Sara apprende la verità della truffa demoniaca monetarista. Sara è in poche parole l’ignaro cittadino-suddito che per la prima volta apprende e squarcia il velo della menzogna della creazione della moneta.
Nell’Epilogo del romanzo, vi è una frase del grande abruzzese “Siamo destinati a vincere, perché questa battaglia porta con sé la forza della verità”. E con questa speranza, con questo incitamento a non cedere di un millimetro nella lotta sociale e popolare, che i giovani lettori del libro potranno scorgere un futuro fausto e solare. 

                                                                                                                                     Davide D’Amario Fonte: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=8255
e-mail cosimomassaro2@gmail.com
 


15/12/12

Riprendiamoci il Medioevo


"Due opere in legno a 500 anni di distanza circa l'una dall'altra. Quale è il faber?"

 

di Dalmazio Frau

Noiosi, per nulla più dirompenti, autoreferenziali, sono gli “artisti” – così è se vi pare – che espongono al Castello Sforzesco, in questi giorni, nella mostra presuntuosamente chiamata “Homo faber”.
Nulla di nuovo sotto le luci alogene, lo avevano già fatto, e meglio, Duchamp con il suo orinatoio e Manzoni con la più che nota “merda d’artista”. Ma loro almeno erano divertenti, ironici, controcorrente. Erano già oltre l’Avanguardia e non l’ennesima sterile, inutile e supponente riproposizione di quella pseudo arte contemporanea che tanto aggrada ad Achille Bonito Oliva, con le sue trans-pre-post-fiancodestr e fiancosinistr’avanguardia.
A guardare - perché osservarle, sinceramente, sarebbe pretendere troppo - le opere o, come si usa adesso in linguaggio più “trendy” e soprattutto più “cool”, a volte troppo “cool”, le “installazioni” non vediamo alcunché di nuovo. Tutto già fatto, già sperimentato, Andy e la sua “Factory” li hanno preceduti di alcuni decenni prendendo per le natiche tutti, ma loro non se ne sono accorti.
Forse invece se ne sono avveduti i “mercanti” ed i “critici d’arte” contemporanea, i “buyer” sempre più “cool”, che ritrovandosi i magazzini ormai stracolmi da anni di “installazioni” che nessuno mai si sognerebbe di installare in casa propria e che ormai cominciano a prendere polvere anche nei più avveniristici musei d’arte “moderna”, hanno ideato di riciclare tali meraviglie in una sorta di oscena “wunderkammer” del nostro tempo.
Non paghi di ciò, approfittando del fatto di poter infierire sulle sale dello Sforzesco, cosa inventano? Un bel ricollegamento tra queste forme di espressione artistoide – definirle opere d’arte sarebbe veramente pretenzioso – e nientemeno che l’Artefice, l’”artifex”, colui che fa, crea arte nel Medio Evo e del Rinascimento.
Ma come? Dopo anni di violenta critica nei confronti di tutto ciò che era l’Arte dei secoli di mezzo e quella “alla maniera degli antichi” dal XV secolo in poi, adesso si va cercando una nobilitazione culturale nell’età passate? Già finita la transipersuperultravanguardia?
E adesso chi glielo dice al MoMa, al Museo d’Arte Moderna di New York, chi lo avverte Achille Bonito Oliva? Vuoi vedere che tra un po’ gli tocca pure rivalutare Duccio e Simone Martini?
Nella mostra milanese si auspica un “ritorno del fare nell’arte contemporanea”. Complimenti, perché questo significa che fino ad ora, nell’espressione artistica attuale, proprio di “fare” e soprattutto “saper fare” ne sia esistita proprio poca o punto alcuna.
I curatori della mostra hanno scoperto ciò che Pater, Ruskin e Morris già sapevano meravigliosamente più di un secolo fa e lo hanno detto e fatto in modi di gran lunga superiori.
In quelle installazioni, ceramiche, rielaborazioni grafiche e collage non vi è l’antica “Magia del Fare” propria delle Botteghe prima medievali e poi rinascimentali. Assistiamo soltanto all’ennesimo vuoto di idee, al milionesimo tentativo di trovare una paternità a qualcosa che non ha padre né madre, ma soltanto padrini mossi dall’istinto economico.
L’empio connubio tra le meravigliose sale del Castello Sforzesco, ancora dipinte nelle sue volte con il gelso di Ludovico il Moro e il sole radiante, con siffatte “mostruosità” – e non in senso latino – ricorda l’altrettanto osceno risultato perpetrato nei Musei Vaticani molti anni or sono.
Là, infatti, disertate anche con un certo senso di istintiva attitudine dal grosso pubblico dei turisti, si snodano le meravigliose stanze dell’Appartamento Borgia. L’unico luogo rimasto pressoché intatto, in tutto il complesso di San Pietro, dell’antica basilica medievale.
Gli avventurosi, e sanamente folli, che osassero abbandonare il pecorume turistico in fuga attraverso i Musei Vaticani, prima di immergersi nella Sistina con seguente cervicale, deviando verso il “Museo di Arte Sacra Contemporanea” si troverebbero straniati e straniti a vedere appunto le supposte “opere d’arte contemporanea” dentro la meravigliosa teoria degli affreschi densi di misteri e significati ermetici ad opera del Pinturicchio.
Ma nelle Sale Borgia non scende nessuno, vanno tutti alla Cappella Sistina, così si salvano dall’arte contemporanea ma si perdono lo splendore del Primo Rinascimento e dell’autunno del Medio Evo.
Sarà ancora la leggenda nera di Cesare e Lucrezia a incutere timore e preferire quindi il loro nemico Giulio II della Rovere o piuttosto sculture e altri manufatti sinceramente ascrivibili alle categorie del “brutto”?
Così è la vita. Non si può avere tutto.
Quindi se proprio vi scappasse di andare al Castello Sforzesco in questo periodo, entrate – tanto è gratuito – a guardare la meravigliosa scultura funeraria di Gaston IV Conte di Foix, Signore del Bearn, ultimo di una dinastia di nobili guerrieri che ha reso grande l’Europa per secoli, capitano delle armate del Duca Valentino – godetevi la pietà incompiuta di quel Buonarroti dal carattere intrattabile, sfiorate con lo sguardo le superbe panoplie di armi ed armature dei Negroli e dei Missaglia, e poi, ma proprio se non potete resistere andate a far pipì, tanto per “Homo faber” c’è tempo, state tranquilli… ne faranno un’altra.

11/12/12

Paranoia e delirio narrativo nella letteratura: Ipotesi di complotto

Un saggio è sempre un’esperienza complessa. È frutto di conoscenza e di passione. L’opera di Giuseppe Panella e Riccardo Gramantieri riflette entrambe queste valenze e la loro enigmatica combinazione. Enigmatico e inquietante è anche il tema: Paranoia e delirio narrativo nella letteratura americana del Novecento, che poi è il sottotitolo di questo libro, Ipotesi di complotto, edito da Solfanelli (collana “Micromegas”). Un’analisi dettagliata, che sviscera un autentico “tormentone” della letteratura USA, nonché un “tarlo” di buona parte della cultura americana. Fin dalle teorie complottistiche relative ai massoni, oppure ai cattolici e agli stessi ebrei – specchio di certa mentalità WASP (White Anglo-Saxon Protestant) e risalenti alla fine del Settecento –, si dipana il filo di una tensione che poi sarà riflessa dalla letteratura e, in particolare, da quella d’ispirazione noir e thriller. Inizia così l’esame di alcuni grandi autori, non solo di opere di genere, ma di ritratti di queste e simili vibrazioni nella psicologia collettiva americana.
Il primo è James Ellroy, la cui stessa biografia (con la morte della madre, assassinata quando lui aveva solo dieci anni) è segnata da una profonda inquietudine complottistica – legata anche ai maestri Dashiell Hammett e Raymond Chandler. “L’America non è mai stata innocente”, scrive in American Tabloid (cit. a pag. 62). Il complotto è però ancor più centrale nell’opera di Thomas Pynchon, che trova in esso la cifra della Storia, come dimostra il suo L’incanto del lotto 49, mentre per Philip Dick il rapporto tra verità e illusione è sostanzialmente una corrispondenza biunivoca, fino a sconfinare della schizofrenia. La realtà stessa, in questo senso, diventa un simulacro, e la memoria un’immagine che si avvicina alla realtà, ma che in effetti la reinterpreta.
Dai concetti più ampi inerenti alla “cospirazione”, nella seconda parte del libro si passa a un esame delle categorie psicanalitiche della paranoia, ricollegate alla letteratura di Dick e di William Burroughs. Un altro nome analizzato è poi quello di Kathy Acker, autrice punk morta giovane ma protagonista della stagione degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, e che nella parte finale del saggio di Panella e Gramantieri verrà nuovamente presa in considerazione in relazione al tema del complotto contro l’identità, poiché i suoi personaggi cambiano spesso “nome, sesso, specie” (pag. 127).
Più ampio, su scala globale, è l’approccio al complotto di un grande modello della Acker, il già ricordato Burroughs, il cui tema centrale è il controllo, legato principalmente alle droghe, che diventano appunto uno strumento di condizionamento individuale e sociale (si veda il romanzo La scimmia sulla schiena); c’è però anche il sesso, concepito come una martellante ripetizione di amplessi “senza alcuna partecipazione emozionale” (pag. 102), come evidenziato da Il pasto nudo.
Infine, veniamo a Don Delillo e Philip Roth. In loro il complotto si manifesta come una presenza e un agente storico e culturale: lo dimostra la parabola (per quanto riguarda Delillo) che va da Rumore bianco (del 1985) a L’uomo che cade (del 2007). Fattore storico e intimo, il complotto – come Delillo scrive in Libra (1988) – ci lavora dentro ed è “per noi eternamente inaccessibile” (cit. a pag. 145). Tanto che il confine (e qui ritroviamo sonorità dickiane) può spostarsi dall’umano al post-umano, coi criminali androidi.
Ma in fondo è l’America in sé – e così il cerchio del saggio di Panella e Gramantieri si chiude – a essere eternamente nel mirino. Dall’assassinio di J.F. Kennedy alle ombre dietro l’attentato alle Torri Gemelle, è sempre stato così. E allora ecco Philip Roth, con Il complotto contro l’America (2004), in cui (come ne La svastica sul sole di Dick) si ipotizza l’affermazione del nazismo negli USA. Si tratta di un’ucronia e di un processo di ribaltamento paradossale, che ha per protagonista un eroe americano, Charles Lindbergh.
Termina così un percorso affascinante, che non sa tanto di “lezione”, quanto di visita guidata tra i fantasmi spazio-temporali di una delle democrazie e delle culture più importanti e discusse dell’intero pianeta.