17/02/14

Platone spiegato da Florenskij

di Antonello Colimberti

“Rovesciare Platone” era quanto, non molti anni fa, proponevano, o insinuavano filosofi allora di primo piano come Michel Foucault e Gilles Deleuze. Oggi, malgrado qualche attardato filosofo detto “postmoderno”, si rende forse necessario un “rovesciamento del rovesciamento”, tale da riproporre il grande pensatore greco al centro di ogni riflessione che non voglia esaurirsi nel puro contingente.
Non stiamo però parlando della pur notevole “Scuola di Tubinga”, diffusa nel nostro paese da Giovanni Reale, che ha portato l’attenzione sulle dottrine non scritte e quindi sul Platone orale ed esoterico, bensì di un gigante del secolo scorso, che solo a partire dagli ultimi anni, a seguito dell’apertura degli archivi del Kgb, sta conoscendo la risonanza mondiale che gli spetta.
Il nome in questione è quello di Pavel Florenskij, filosofo, scienziato, sacerdote e teologo russo, nato nel 1882 e morto fucilato nel lager delle isole Solovki per ordine del regime sovietico nel 1937.
L’occasione di tornare a parlarne e soprattutto a leggerlo viene dalla fresca pubblicazione di un aureo libretto intitolato Realtà e Mistero. Le radici universali dell’idealismo e la filosofia del nome (Edizioni SE), nel quale Natalino Valentini, il nostro massimo esegeta florenskiano, ha raccolto due testi inediti di particolare valore (traduzione di Claudia Zonghetti).
Il primo, Le radici universali dell’idealismo, è il testo di un relazione tenuta il 17 settembre 1908 all’Accademia Teologica di Mosca. La lettura del pensatore russo è sorprendente: la prospettiva platonica, lungi dall’essere quella dottrina di pura astrazione che la vulgata, scolastica e non, ha continuato e continua a ripetere, appare come la più aderente alla percezione spontanea del popolo, anzi la più vicina alla sapienza della cultura contadina.
Qui il sacerdote ortodosso russo Florenskij incontra, anticipandolo, il gesuita cattolico francese Marcel Jousse, che poco più di un decennio dopo inaugurerà una lunga ricerca sull’Antropologia del Gesto e sulla figura del Gesù Contadino (Rabbi Yeshũa Paysan). Non minore stupore desta il secondo testo, Il nome di Dio, scritto nel 1921, nel quale il pensatore russo elabora una vera e propria filosofia del Nome, in precisa corrispondenza e continuazione con il pensiero medievale di Gregorio Palamas e della tradizione esicasta (si pensi alla pratica della Preghiera-di-Gesù). Ben lungi dalla riduzione a puro strumento convenzionale, la teoria del linguaggio florenskiana afferma la parola, al pari dell’icona, come simbolo attraverso cui l’energia-luce del mondo invisibile irrompe nel mondo visibile.
Insomma, due rari testi di invito ad una conoscenza “altra” e perenne, come sottolineato nell’impeccabile postfazione di Valentini intitolata “Le radici del comune sentire. La filosofia dei popoli e del nome”.

11/02/14

Sindacalismo rivoluzionario. Dottrina comunitaria di lotta

Sergio Panunzio (1886 –1944)

Nella tradizione politica italiana la coniugazione dei termini popolo e nazione è stata un’eterna costante. La speciale idea di democrazia che si era fatta largo in epoca moderna non aveva nulla dell’oligarchismo parlamentarista di provenienza anglosassone e puritana. E neppure aveva nulla a che spartire con il millenarismo classista di Marx e con il suo elogio del progresso cosmopolita. Al contrario, almeno da Mazzini in poi, si ha da noi il convincimento che per democrazia debba intendersi la mobilitazione di tutto il popolo, oltre le classi e gli interessi, e il suo inserimento nel circuito decisionista attraverso il meccanismo delle appartenenze sociali entro la cornice nazionale. Come dire: il lavoro e la sua possibilità di uscire dalla gestione economica per entrare in quella politica. Il che significava la guida del popolo affidata alle sue aristocrazie politiche espresse dalla competenza tecnica. E in questo noi vediamo facilmente l’anticipazione di molto corporativismo, ad esempio nel senso di un Ugo Spirito. Il Sindacalismo Rivoluzionario nacque in questa prospettiva. E la storia del socialismo non marxista ne è la conferma. La mobilitazione morale, la promozione di una cultura politica popolare e la lotta contro il classismo furono tappe essenziali di quel movimento di liberazione delle energie davvero democratiche e davvero popolari che si presentò al crocevia storico del 1914 come il più vitale e il più attivo. Bloccato il socialismo riformista nelle sue derive fatalistiche, screditato quello massimalista e marxista dalla sua impotenza anche solo a concepire una via rivoluzionaria, in Italia gli unici versanti mobilitatori e innovativi, capaci di intendere la politica mondiale e le possibilità della storia, furono il Nazionalismo imperialista e il Sindacalismo Rivoluzionario.

Possiamo dire che quando, intorno al 1911, Angelo Oliviero Olivetti affermava che sindacalismo e nazionalismo si presentavano come “dottrine di energia e di volontà”, essendo le due uniche “tendenze aristocratiche” in un mondo già livellatore, e che insieme esprimevano “il culto dell’eroico che vogliono far rivivere in mezzo a una società di borsisti e di droghieri”, le fondamenta di un diverso modo di concepire la politica erano già gettate. Questa via politica, in realtà, più che nuova, era proprio rivoluzionaria rispetto alla tradizione ottocentesca legata agli schieramenti di classe, e lo era anche nei confronti della politica del Novecento, tutta di nuovo incentrata - dal marxismo al liberalismo - sulla concezione antagonista tra i ceti e gli interessi, che era tipica del classismo tanto di vertice (liberale) quanto di base (marxista). La percezione che il criterio dell’appartenenza è dato dal valore di legame culturale e bio-storico, anziché dal profitto e dal salario, fu un rovesciamento delle categorie mentali del borghesismo, rifiutate nel loro insieme, come brutale negazione dell’identità profonda, quella geo-storica. Ben più significante di quella superficiale, occasionale e mutevole che deriva dalla mera collocazione sociale.

L’aver scoperto che tra le masse e le oligarchie esiste uno spazio destinale che entrambe le ricomprende sotto il nome di popolo è il maggior titolo ideologico del Sindacalismo Rivoluzionario italiano.
Di fronte ai ricorrenti tentativi di sottrarre il Sindacalismo Rivoluzionario a questo suo destino ideologico - tentativi intesi soprattutto a sganciarlo dall’eredità fascista, presentata ogni volta come incongrua e manipolatoria, secondo le note mistificazioni di certa storiografia contemporanea - noi non possiamo che far parlare gli ideali, i progetti e le intuizioni di una classe dirigente sindacalrivoluzionaria che procedette diritto lungo un unico crinale: concezione organicistica della società, precedenza del fattore comunitario su quello individualistico e settario, sindacato come aggregazione più politica che economica, messa in valore della lotta e persino della guerra esterna come essenziali momenti di potenziamento del popolo, in quanto blocco unitario di volontà e più precisamente di volontà politica. E, non da ultimo, netta presa di coscienza che il rivoluzionamento degli assetti sociali liberali e conservatori lo si poteva ottenere non con rivendicazioni settorialistiche vetero-sindacali, ma con drammaturgie popolari ad alta intensità coinvolgente. In altre parole, con una cultura politica fortemente mobilitante, alla maniera del “mito” soreliano. Ciò che ai sindacalisti rivoluzionari fece riconoscere la Prima guerra mondiale per quello che era: l’occasione storica per abbattere l’oligarchia liberale e per dare avvìo alla coscienza popolare di massa, attivata attraverso la tragica compartecipazione al dramma collettivo di una crescita “spengleriana”, per così dire. Ottenuta cioè per mutazioni traumatiche, per scatti rivoluzionari: la guerra nazionale come azione rivoluzionaria di massa, appunto. Qualcosa di molto diverso dai blandi riformismi, che in regime liberale sono facilmente gestibili, al solito, dalle caste borghesi paternaliste.
Una concezione del mondo fondata sul riconoscimento del trauma epocale come punto di rottura e apertura degli spazi del rovesciamento: questa la virtù rivoluzionaria dei sindacalisti rivoluzionari, che nel riconoscere la Nazione in altro modo rispetto al patriottismo conservatore borghese, in modo popolare e sociale, riconobbero il valore politico del Novecento, cioè la comunità di popolo mobilitata attorno a simboli e traguardi di valore sociale, politico e metapolitico, non occasionali ma macrostorici.
La macrostoria è difatti lo scenario del Sindacalismo Rivoluzionario, più di quanto la rivendicazione salariale contrattata coi potentati industriali non fosse invece l’umile terreno del sindacalismo socialista, microstorico a dispetto dei suoi sogni palingenetici, e incapace, al momento buono, di interpretare i segni del cambiamento epocale. Come accadde puntualmente nel 1914, quando i gestori socialisti del “risentimento di classe” proletario consegnarono alla sconfitta storica proprio quelle masse operaie che avrebbero inteso condurre al riscatto, contrattando scaglie di paternalismo con il padronato, anziché verificare la possibilità di liquidare la casta al potere costruendo un’avanguardia aristocratica aperta non al popolo, ma a tutto il popolo.
Sia Georges Sorel che Arturo Labriola Labriola ebbero modo di notare che il sindacalismo socialista aveva una scarsa propensione alla lotta e che quasi quasi la borghesia, o per lo meno certi suoi settori, dimostravano negli anni precedenti la Prima guerra mondiale una capacità dinamica maggiore, un decisionismo più libero. La storia del sindacalismo socialista prima e socialcomunista poi è una storia di sottomissione al padronato capitalistico e di rassegnazione alla subalternità, di assenza di strategia e di semplice tattica di retroguardia. In questo ambito, il Sindacalismo Rivoluzionario presentava una ben maggiore capacità di verificare le possibilità della storia. E sua fu l’unica volontà massimalista davvero all’opera allora in Italia. Quando poi si attuò la saldatura tra coscienza di popolo e coscienza di nazione, l’Italia si trovò all’avanguardia europea di tutte le rivendicazioni: politiche, sociali e storiche. Fu in questo modo dimostrato che la vera politica sociale era quella della nazione e non quella della classe.
Come hanno dimostrato gli storici, c’erano settori dominanti del Sindacalismo Rivoluzionario in cui il nazionalismo non solo era distinto dal patriottismo di classe del borghesismo, ma era giudicato come lo strumento migliore per creare, con i vincoli di un’appartenenza ribadita come identità di rilievo mondiale, le condizioni per scuotere le oligarchie plutocratiche e per ottenere il risveglio delle masse: non secondo principi universali astratti, ma secondo principi territoriali realistici. Un popolo e il suo territorio, un popolo e i suoi diritti alla vita, un popolo e la sua determinazione a imporsi nella lotta mondiale: questa la scena della maggiore rivendicazione possibile. In uno scritto apparso sul foglio “L’internazionale” del luglio 1911, in occasione della polemica circa la guerra di Libia, ad esempio, troviamo sanciti in maniera straordinariamente chiara i contorni di una maturazione politica che allora e ancor più in seguito mancò del tutto sia al socialismo sia al socialcomunismo: il valore-nazione come strumento di liberazione dalla prigione della classe. Il parere di un operaio intellettualizzato, Agostino Gregori, era il seguente: il nazionalismo è il “fatto nuovo”, destinato a segnare una fase storica nel movimento politico ed economico del nostro paese. Potrebbe anche darsi che il proletariato debba a questo movimento lo scatto violento di tutte le sue energie che lo porterebbero alla conquista della propria emancipazione, alla rivendicazione di tutti i suoi diritti prima ancora di quanto noi pensiamo e speriamo.
Si faccia attenzione a come qui si parli di “tutti i diritti” del popolo lavoratore, e non solo di quelli sindacali o retributivi. “Tutti i diritti” significa che tramite il nazionalismo il proletariato accede anche alla “cultura borghese”, alla nazione, alla patria e alla guerra di classe internazionale: l’imperialismo. Affermazioni come questa sono tipiche di un sostrato rivoluzionario antimarxista e veramente popolare, cioè nazionale, ben vivo nel sottotraccia politico dell’epoca che incubò il Fascismo, e bene in grado di comprendere che una politica popolare di vertice era possibile svolgerla unicamente impossessandosi dei diritti del popolo usurpati dalla borghesia. Togliere dalle mani della borghesia la nazione e lo stesso imperialismo - come ad esempio faceva Corradini - significava sostituire alle oligarchie del denaro le aristocrazie di comando della politica, attinte dall’intero bacino del popolo. E queste, a differenza di quelle, provenivano da tutto il popolo, erano tutto il popolo, e non soltanto la sua minoranza capitalista o la sua minoranza operaista: l’una e l’altra, se prese isolatamente, ugualmente dedite all’esclusivo calcolo utilitario di classe.
Questo è il lontano antefatto di accadimenti di solito trascurati dalla storiografia, ma che sono centrali in un’analisi del valore storico dell’idea italiana di democrazia di popolo. Questo è il lontano antecedente, per fare un esempio, del fatto che durante la Repubblica Sociale si poté avere un ministro direttamente espresso non dalla cultura sindacalista, non dall’intellettualità borghese di nominale militanza filo-proletaria, non dalla nomenclatura di questo o quel partito, ma dalla fabbrica e dalla militanza di base: l’operaio Giuseppe Spinelli, ultimo Ministro del Lavoro della RSI.
Il passaggio dal Sindacalismo Rivoluzionario al sindacalismo nazionale non fu che la sintesi storica di un procedimento naturale e spontaneo. Una volta che si era riconosciuta la contiguità tra lotta di popolo e guerra rivoluzionaria, si erano anche stabilite le coordinate dell’organicismo. Se pensiamo ad esempio al comunalismo di un Alceste De Ambris, incentrato sulle identità ancestrali della territorialità locale, sulla tradizione e sulla consuetudine della comunità di villaggio, noi vediamo che è su questo punto che avverranno le più larghe convergenze proprio tra il Fascismo e questa ideologia della tradizione rivoluzionaria. Fu infatti proprio il Fascismo, per altri versi accentratore e “prefettizio”, il Fascismo “liberticida”, totalitario e politicamente “assolutista” che favorì, senza alcuna contraddizione nel far convivere l’assoluto del Centro con il relativo della periferia, quella straordinaria operazione di recupero della cultura popolare in epoca moderna che fu la rinascita fascista delle piccole patrie. Regioni, borghi, feste e associazionismi paesani, ataviche memorie condivise e realtà locali di antico prestigio sociale ebbero sanzione di sovrana autorità identitaria, convivendo entro la cornice della Nazione, che tutto questo comprendeva armonicamente. Questa singolare inquadratura di eguale sincronismo tra arcaismo e modernità seppe conferire alle identità locali quel respiro di integrazione nel più ampio quadro dell’identità nazionale, che non è mai esistito né nel comunismo - che è stato sempre violentemente ostile al tradizionalismo rurale e urbano - né nel liberalismo, per natura nemico dei radicamenti e favorevole agli universalismi.
Il Sindacalismo Rivoluzionario italiano, oltre che terreno di lotta sociale e politica nel nome del popolo emarginato, da ricondurre entro l’alveo nazionale con nuovi titoli di nobiltà sociale, è stato infatti anche e soprattutto strumento rivoluzionario-conservatore dell’identità. In esso, la modernità della società sviluppata e massificata veniva coniugata al riconoscimento che il nesso radicale tra uomo e suolo, tra lavoratore e identità geo-storica, tra ceppo ancestrale e luogo fisico della convivenza, è ineliminabile, è anzi da rafforzare contro ogni cosmopolitismo.
La risoluzione di riconoscere prima nella guerra coloniale del 1911-12 e poi in quella nazionale del 1915-18 una rivoluzionaria guerra di popolo di portata politica, sociale e identitaria decisiva, mostra che il Sindacalismo Rivoluzionario, affiancando il Nazionalismo nella lotta interventista, non ebbe nulla a che spartire con le logiche classiste liberali e marxiste, ma ne costituì l’esatto contraltare.
Quando, nel 1935, Arturo Labriola riconobbe nella guerra d’Africa davvero l’attesa pagina di riscatto popolare attraverso l’imperialismo contadino di un’intera nazione, mise un chiaro sigillo ideologico sull’intero movimento del sindacalismo politico. Questa sua finale ammissione dei titoli storici del Fascismo a interpretare i diritti del lavoro, fu una ben più centrata analisi che non quella operata dal “famoso” sindacalismo rivoluzionario parmense che, pur interventista nel 1914, volle nel 1922 sbagliare la sua diagnosi storica: volle vedere nello squadrismo non l’insurrezione armata del popolo, ma il braccio dell’Agraria, indotto in questo errore da coincidenze locali, da propagande reazionarie, da miopie di piccoli capi, mancando di coglierne il più vasto significato storico: che per la prima volta, in Italia, il popolo della campagna, quello del bracciantato, quello del sobborgo, quello dell’artigianato impoverito, quello minuto degli antichi centri storici urbani - insomma, proprio il popolo deambrisiano del comunalismo - prendeva le armi contro un’autorità massonica, oligarchica e reazionaria e portava al potere un suo capo. Prevalse dunque in quel caso un malconcepito afflato “libertarista” che non fu mai patrimonio del vero Sindacalismo Rivoluzionario, ma cascame anarco-repubblicano, “azionista” ante-litteram. Ma quella di Parma sindacalista che fece le barricate contro l’insurrezione squadristica - modesto episodio ostentato dalla storiografia di parte come l’unico trofeo antifascista del Sindacalismo Rivoluzionario, e che invece fu un chiaro attestato della retroguardia in cui si dibatteva tanta “sinistra” italiana dell’epoca - fu scheggia a sé, in nulla rappresentativa dell’intero movimento. Basti dire che il Sindacalismo Rivoluzionario fornì al Fascismo l’ossatura storica del suo sindacalismo e del suo corporativismo: Michele Bianchi, Edmondo Rossoni, Cesare Rossi, Massimo Rocca, Umberto Pasella, Ottavio Dinale, Paolo Orano, Agostino Lanzillo…e può bastare così. E che inoltre fornì, attraverso l’elaborazione del socialismo giuridico, la pietra d’angolo del regime sociale di massa gerarchico e popolare.
Ma il senso storico centrale del Sindacalismo Rivoluzionario è ancora un altro. E’ l’idea propriamente corporativa che l’associazionismo di popolo è la trama sociale su cui una nazione si regge, è il basamento su cui viene eretto un sistema aperto all’accesso dei migliori al potere, è l’organo vivo le cui cellule dinamiche sono attivate dalla partecipazione, dalla mobilità verso l’alto, dal decisionismo politico e da un solidarismo doppiamente efficace: quello di ordine sociale e quello di identità nazionale. Senza il Sindacalismo Rivoluzionario, il pensiero politico italiano non avrebbe conosciuto, ad esempio, il fenomeno del sindacalismo nazionale. Che può essere ben espresso da quanto Sergio Panunzio affermava circa l’organicismo sindacalista, anima di una “socializzazione dell’uomo” che avrebbe definitivamente desertificato il terreno su cui vigoreggiano i liberismi del profitto privato.
Il sindacato operaio può essere la risposta al solidarismo borghese solo in regime di spaccature liberali. Il sindacalismo operaio, in uno Stato organicista, svolge invece, come qualunque altro rango sociale o Stand - intellettuale, di mestiere, di professione, di servizio -, il ruolo di elemento politico di selezione dei migliori, attingendo da una base popolare che né il liberalismo né lo stesso bolscevismo considerarono mai come effettivo bacino dell’élite di comando: l’intera popolazione nazionale. Lo Stato sindacale non è, in questo senso, che il bastione di una conservazione rivoluzionaria, all’interno della quale la raccolta del lavoratore in associazione non solo economica, ma soprattutto politica, ha lo stesso arcaico sapore delle antiche corporazioni, delle antiche compagnie dei mestieri, delle fraglie artigiane, dei sodalizi di artieri. Storicamente, tutti questi momenti dell’ordinamento per ranghi di onore sociale sono luoghi in cui il solidarismo non è propaganda umanitaria e mondialista, né organismo di protezione economica di settori più o meno privilegiati, ma vita vissuta quotidianamente accanto a chi condivide il proprio spazio geo-storico e lotta per un medesimo destino.
di Luca Leonello Rimbotti –
 

07/02/14

Linee di storia profetica (ultima parte)


di Federico Cavallaro

Grandi Apparizioni mariane

S.Luigi Grignon de Montfort (+1716) fu certamente ispirato nelle sue intuizioni sulla S.Vergine e sulla venuta degli “Apostoli degli ultimi tempi”. Annunciò il grande ruolo manifesto che la S.Vergine avrebbe avuto nella preparazione di quella che poteva essere chiamata l’ “Era di Maria”, beninteso, in unione al Figlio Gesù Cristo, quell’Era dello Spirito Santo che era già stata annunziata da altri; uno Spirito di cui lei è evidentemente la Paredra, la Porta femminile di Dio in terra che è anche quella della risalita, della rinascita iniziatica (l’ “acqua” di Gv 3,5)[1]. Da notare che questi scritti furono in certo modo occultati (sicuramente per questa esaltazione di Maria) fino al 1842; fu canonizzato solo nel 1947, l’anno delle Apparizioni delle Tre Fontane di Roma.

Nell’Apparizione del 1830 a suor Caterina Labouré, la “Medaglia miracolosa” coniata per questa occasione, già affermava l’Immacolata Concezione di Maria e la raffigurazione dei due Cuori uniti di Maria e Gesù sono già evidenza della sua funzione Corredentrice. 

A La Salette (1846), a Melania e Massimino, furono comunicati Messaggi per i governanti e i regni, avvisando che sarebbero stati colpiti dall’antico serpente, con grandi divisioni e confusione (si ricordi quello che avvenne in Europa nel 1848) che sarebbero continuate per 35 anni. Anche in questi messaggi si davano 25 anni di pace prima della venuta dell’Anticristo.  Forse la descrizione che Melania dà dell’aspetto della S.Vergine a lei apparsa varie volte può dare la migliore prova sperimentale della sua sostanziale natura divina che ne traspare:
“La Vergine Santissima era molto alta e ben proporzionata … la sua fisionomia era maestosa, imponente … imponeva una timidezza rispettosa, mentre la Sua maestà, che imponeva rispetto misto ad amore, attirava a Lei. Il Suo sguardo era dolce e penetrante … la conversazione proveniva da un profondo e vivo sentimento d’amore verso questa attraente bellezza che mi liquefaceva[2]. La Vergine SS. Era tutta bella e tutta fatta d’amore. Guardandola, io languivo per fondermi in Lei. Dai Suoi ornamenti, come dalla Sua Persona, da tutto, trapelava la maestà, lo splendore, la magnificenza fulgente, celeste, fresca, nuova come una vergine. Sembrava che la parola “amore” sfuggisse dalle sue labbra argentee e pure. Aveva l’apparenza di una mamma affettuosa, piena di bontà, di amabilità, di amore per noi, di compassione e di misericordia. La corona di rose che portava sulla testa era così bella e brillante … Oh! Madre più che buona, Voi siete stata formata di tutte le prerogative di cui Dio è capace. Voi avete, in un certo senso, esaurito la potenza di Dio. Voi siete buona, ed ancora, buona della bontà di Dio stesso. Dio, formandovi come Suo capolavoro celeste e terrestre, si è reso ancora più grande … La visione della Vergine era di per sé un intero Paradiso, Lei aveva con sé tutto quanto poteva dare soddisfazione poiché si dimenticava questa Terra”. (Corsivi nostri).
Un’analisi del testo con occhi non prevenuti ci mostra subito la presentazione che Maria fa di sé stessa come personaggio celeste così maestoso da suggerire l’aspetto femminile del divino; il desiderio di “fusione” non può provenire che dal profondo della creatura che riconosce la sorgente divina da cui è uscita, ed è lo stesso che tutti i grandi mistici hanno provato di fronte al divin Figlio. Una creatura riempita delle qualità divine, della Potenza divina, come Maria, non può non richiamare la creaturalità del Figlio, peraltro espressione del Verbo creatore, così come Maria risulta espressione del Seno materno di Dio, la “Bontà stessa” che è l’essenza del Paradiso!
Dalla Salette in poi, le Comunicazioni celesti si sono moltiplicate, come pure certa fenomenologia: le lacrimazioni di simulacri, anche con effusione di sangue, che hanno resistito a severi controlli; famose, in passato, quelle numerosissime avvenute durante l’occupazione napoleonica dell’Italia[3]

I fatti di Fatima (1917) sono molto noti, la stessa suor Lucia nel 1941, nella sua terza memoria, distingue tre parti del Messaggio originale: la prima riguarda l’Inferno e l’indicazione dell’Immacolato Cuore di Maria come rimedio supremo per salvare le anime; la seconda è la profezia del bolscevismo e di una miracolosa pace da ottenere attraverso la consacrazione della Russia all’immacolato Cuore[4], inoltre l’indicazione della pia pratica della confessione e comunione per i primi sabati di cinque mesi consecutivi; la terza parte non veniva rivelata ma poteva esserlo a partire dal 1960. Comunque, il Vescovo di Fatima disse che la terza parte riguardava l’apostasia dalla fede che minacciava la stessa Chiesa; ciò che fu confermato da suor Lucia che parlò di “tempi di diabolica disorientazione” e “apostasia degli ultimi tempi”; il card. Ratzinger, nel 1984, disse che la terza parte riguardava castighi apocalittici. Stranamente, queste informazioni sparirono dal testo presentato ufficialmente (26 giugno 2000), rimase solo la descrizione del Vescovo vestito di bianco che fugge tra le rovine e infine viene colpito da spari e frecce[5]: l’unico vescovo così vestito è, attualmente, solo Benedetto XVI. Voci incontrollate parlano di un’invasione russo-islamica.
A Fatima, migliaia di testimoni videro il sole del 13 ottobre 1917, in immagine sdoppiata, roteare su sé stesso, assumere vari colori e precipitarsi sulla terra. Soprattutto per il solito silenzio ecclesiastico, s’ignora che fenomeni similari si sono verificati numerose volte nei decenni seguenti in occasione di Apparizioni a veggenti diversi!  Allo stesso Pio XII accadde di vederli dai giardini vaticani prima durante e dopo la proclamazione del dogma dell’Assunta (1 nov. 1950), come scrisse di suo pugno privatamente e come già trapelò nel 1951[6]. In occasione del 33° dell’Apparizione alle Tre Fontane (1980), vedemmo il sole roteare, sdoppiarsi, muoversi e assumere colorazioni cangianti; ricordo che il titolo qui rivelato fu di “Vergine della Rivelazione”, Ella associandosi quindi strettamente alla missione del Figlio.

In Amsterdam la S.Vergine apparve a Ida Perlemann, dal 1945 al ’59, presentandosi come “Signora di tutti i Popoli” e, tra tante profezie, disse che l’Era della Pace sarebbe stata segnata dalla proclamazione del dogma di Maria Corredentrice, Mediatrice e Avvocata, in un futuro 31 maggio.

In Spagna, a Garabandal, venne rivelato a quattro ragazze, nel 1961, che vi sarebbero stati tre eventi come segni premonitori della fine: l’Avvertimento, il Miracolo, il Castigo. Il primo non sarà pericoloso di per sé, ma sarà veduto e sentito in tutto il mondo, dall’esterno passerà all’interno di ogni uomo, “sarà per il bene delle nostre anime, riguarda il vedere in noi stessi la nostra coscienza … il bene che noi abbiamo mancato di fare e il male che abbiamo fatto, allora sentiremo un grande amore verso i nostri celesti Genitori e chiederemo perdono per tutte le nostre offese”. Si tratterà, quindi, di un giudizio particolare in vita e anche di una Pentecoste universale dello Spirito d’Amore (per chi si sottometterà in quel momento a Dio) di cui scrissero poi molti, fra i quali anche don Stefano Gobbi, fondatore del Movimento Sacerdotale Mariano; prima ancora ne scrissero la Beata Anna Maria Taigi (+1837), Teresa Neumann (+1962), la Beata Faustina Kowalska (+1938), quattro ragazze tedesche nel 1937, cfr. poi Amparo Cuevas in Spagna nel 1983. Conchita di Garabandal scrisse che l’Avvertimento apparirà come due stelle emanate da una cometa che scenderanno a vedere nelle nostre anima; entro un anno vi sarà poi il grande Miracolo, a Garabandal ma anche sui luoghi di note Apparizioni che pare consisterà in una colonna di luce simile a quella che guidava gli Ebrei nel deserto. Ciò sarà preavvisato otto giorni prima e avverrà un giovedì, festa di un giovane martire dell’Eucaristia. Il Castigo sarà uno spaventoso “vento di pestilenza”, un “fuoco del cielo” (cfr. 2 Pt 3,5-13), accompagnato da grandi tempeste; tutto potrebbe essere disciolto se l’umanità si convertisse. Le Apparizioni di Garabandal furono pubbliche e furono viste levitazioni delle veggenti e comunioni date da mani invisibili di angeli. Da segnalare che il grande risveglio di conversione della Russia avverrà solo dopo il Miracolo. 

A proposito della Russia, va citato il monaco Basilio (+1722) la cui opera caritativa si svolse tra gli operai che costruivano San Pietroburgo[7]. Egli profetizzò i destini della Russia, l’ascesa del comunismo, la sua caduta ma anche un suo breve ritorno al potere (mentre ora lo si crede definitivamente sconfitto), la guerra e infine la pace. Sulla purificazione del pianeta egli dice: “Il sole cambierà la strada e la luna si perderà tra i monti, le stelle pioveranno sulla terra … E all’ottavo giorno l’Eterno ritornerà a disegnare la Terra … ci sarà un nuovo sole (cfr. la profezia dei Maya). Sarà così che, dove un tempo regnava il ghiaccio, ora brucerà il sole e dove bruciava il sole regnerà il ghiaccio … In questo tempo il sole spunterà a ponente e tramonterà a levante, i frutti matureranno al tempo delle nevi”. Risulta da quanto dice che si avrà un capovolgimento notevole dell’Asse terrestre, che sposta quindi le stagioni nei territori. L’inversione magnetica è già prevista dalla scienza ma non certo è prevedibile l’inversione geografica, questa peraltro è segnalata come avvenuta in passato – varie volte – in numerosi testi tradizionali antichi.
Anche moltissimi Messaggi del passato e contemporanei accennano ai famosi “tre giorni di buio” nei quali “il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce…” ciò che è addirittura evangelico (S.Mt 24,29) e prima ancora di Isaia ed Ezechiele; subito dopo comparirà in cielo il grande Segno (Mt 24,30), ossia un’immensa Croce luminosa dopo la quale dovrebbe instaurarsi il breve regno di pace (di 25 anni), prima dello scatenamento dell’Anticristo.

A Kibeko (Rwanda) la S.Vergine è apparsa a ben sei ragazzi (1981-83) preannunciando, diversi anni prima, i possibili massacri tra le popolazioni locali, cosa avvenne, com’è noto; diversi di questi veggenti sono poi periti in queste guerre. Eccezionali le Apparizioni, a tutti visibili, di Zeitun (El Cairo) nelle quali si vedeva la sagoma luminosa della S.Vergine deambulante e orante sulla cupola di una chiesa copta, negli anni 1968-70, in cui vi era attrito tra Egitto e Israele; l’evento si ripeté venerdì 11 dicembre 2009 e pare anche in seguito. Ancora in atto a Medjugorje Apparizioni mensili, dopo che per tanti anni, con straordinaria pazienza, la S.Vergine era apparsa quotidianamente ai sei veggenti, a partire dal 24 giugno 1981. Si presentò come Regina della Pace in quella terra che fu martoriata da guerre intestine per lunghi anni. Apparizioni accompagnate anche da fenomeni luminosi visibili a tutti, fra i quali anche il sole rotante, eppure fecero anche storcere il naso a “benpensanti” che non si capacitavano come la S.Vergine non avesse altro da fare! Dei dieci segreti ne restano otto che saranno rivelati al momento opportuno. 

Segnaliamo anche gli importanti Messaggi della s.ra Fernande (J.N.S.R.), nei quali si annuncia che la Grande Purificazione dell’umanità comincerà dal 2013, con una serie incalzante di fenomeni ecclesiastici, politici e geologici, quest’ultimi come reazione di una Terra viva ai continui avvelenamenti ambientali. Viene indicata anche la cura del Signore verso il popolo eletto non dimenticato, gli Ebrei, in connessione col tentativo di Satana di conquistare le due città sacre di Roma e Gerusalemme.
Le Apparizioni con Messaggi pubblicati, e quindi già sottoposti a un controllo preventivo, sono probabilmente un centinaio o più. Un’imponente letteratura che invita, quindi, ad una ricerca personale, sia con le pubblicazioni editoriali “Segno” sia in internet, sotto le indicazioni generali che particolari, quali “Luz de Maria”, “Messaggi della Divina Sapienza”, “Messaggi di Gesù” …
Un appello ai chierici: ma non vi accorgete che da tempo vi è stato proibito di parlare delle vite dei Santi o del demonio e men che meno di Apparizioni e Profezie? L’astuzia di Satana è quindi riuscita ad abbindolare anche la gerarchia terrena della Chiesa! Svegliamoci!
Siamo in una fase evolutiva globale, per questo le resistenze degli utili imbecilli di Satana continuano. Malgrado le convulsioni che avvengono e che avverranno, queste sono preludio alla metamorfosi superiore dell’uomo, già anticipata dal Maestro supremo, quindi bisogna avere lo sguardo fisso a questa meta, quando l’uomo riacquisterà il suo ruolo di mediatore tra Cielo e Terra, tornando alla sua vera natura interiore che in origine è quella partorita direttamente da Dio. Solo la riappropriazione della sua vera natura permetterà all’uomo l’illuminazione di veder chiaro e superare gli sfrenati individualismi della Babele attuale che spinge a gridare a gran voce diritti “umani” con liceità dei propri vizi e devianze.  


[1] Dopo tali profetici avvisi, non si comprende perché i mariologi ufficiosi siano così restii riguardo alla reale natura di Maria SS.
[2] Cfr. Ez 22,21-22 dove l’ira di Dio vuol liquefare la Casa d’Israele, al contrario qui è l’Amore che attira.
[3] E’ sintomatico di un modernistico orrore per il soprannaturale che i chierici, dovunque abbiano potuto, spesso abbiano cercato di occultare questi fenomeni.
[4] Consacrazione che ogni Papa ha voluto fare con buona volontà ma che non si è mai svolta secondo quanto era stato indicato, ossia con la collegialità di tutti i Vescovi. Dio non voglia che tale carenza sia dovuta alla stessa incredulità di parte dei Vescovi!
[5] Cfr. “La Civiltà Cattolica”, 15 luglio 2000, p. 169.
[6] Cfr. A.Tornielli in “La Via” 13 ott. 2013, p. 7.
[7] Cfr. Renzo Baschera, Il mistero di San Pietroburgo, Mondadori 1992.