28/10/15

Lascia tutto per il convento



Dopo alcuni anni di discernimento, la giovane professoressa Stéphanie, di 26 anni, ha preso la decisione della sua vita: offrire tutta la sua esistenza a Dio, entrando in convento. Abbiamo parlato con lei qualche giorno prima del suo ingresso nella comunità benedettina dell’Abbazia di Nostra Signora di Pesquié, ad Ariège (Francia).

Aleteia: Quando ha scoperto la fede?
Stéphanie: Non sono mai arrivata a “perdere la fede”. Dopo la morte di mia sorella la mia fede, che era mezzo addormentata, si è risvegliata. Ho iniziato a credere profondamente e a voler progredire a livello spirituale nella mia vita. Ho perso una sorella nel 2005, mentre stava andando alla Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia. Quell’evento è stato senz’altro cruciale per il mio discernimento. La sua morte è stata un vero punto di svolta nella mia vita spirituale. Mi sono resa conto dell’importanza della nostra vita; che stiamo sulla Terra per un tempo limitato, che veniamo da Dio e un giorno vorremmo tornare da Lui. Vengo da una famiglia cattolica molto religiosa, ma penso che fino a quel momento andavo in chiesa più per routine e mimetismo che altro.

Aleteia: Quando ha iniziato ad affacciarsi l’idea di entrare in convento?
Stéphanie: Qualche anno dopo, nel 2008, dopo un pellegrinaggio, ho sentito un’attrazione per Dio durante la Messa e un forte desiderio di amarlo. Da quel momento ho vissuto con la sete di assoluto. L’idea di dedicare la mia vita a Lui ed entrare in convento è diventata più pressante. Ho sentito un vero amore per Dio, come se mi innamorassi di Lui. Avevo bisogno di andare a Messa tutti i giorni, di trascorrere del tempo con Lui. Questo grande desiderio è durato solo qualche mese. Sono passati gli anni. Avevo messo da parte la questione, anche se di tanto in tanto ritornava. Ho iniziato a lavorare come professoressa e conducevo la mia bella vita parigina. Ero felice, ma non completa. Con il tempo, il desiderio di mettere Dio al centro della mia vita è aumentato. Ho iniziato a pregare tutte le mattine chiedendo a Dio di aiutarmi a orientare la mia vita. Poi ho fatto un ritiro, e il mio direttore spirituale mi ha chiesto perché non offrivo la mia vita a Dio. L’idea non mi aveva mai abbandonato del tutto, e dopo di allora è diventata evidente. Ma questa evidenza era vertiginosa! Avevo sete di Dio, ma la decisione di fronte a una scelta tanto radicale non è stata affatto facile.

Aleteia: Chi è stato il primo a conoscere la sua decisione?
Stéphanie: Sono andata a informare la direttrice della scuola, ancor prima di dirlo alla mia famiglia o al mio direttore spirituale! È rimasta a bocca aperta. I miei genitori hanno accolto la notizia con allegria ed emozione, pur sapendo che d’ora in poi ci vedremo di meno, ma ammiro il loro coraggio e la loro fede. Mia madre mi ha sempre detto che vedeva i figli come un dono di Dio e che alla fine dei conti i figli appartengono a Lui.

Aleteia: Qualche santo l’ha ispirata in questo percorso?
Stéphanie: Santa Teresa mi ha aiutato a vivere il momento presente. Con lei ho preso coscienza della mia piccolezza davanti all’amore di Dio. Anche San Benedetto mi ha guidato da quando ho preso questa decisione il giorno della sua festa. Mi piace particolarmente la preghiera di abbandono del beato Charles de Foucauld, e cerco di recitarla tutti i giorni.

Aleteia: Cosa pensa della vita che sta per lasciarsi alle spalle: il divertimento, la quotidianità, i rapporti affettivi… Non le mancheranno?
Stéphanie: No. E ad essere sincera mi sembrava tutto un po’ superficiale. Non è in questo che si trova la felicità, ma nelle relazioni profonde. La mia fede mi porta a non vivere in modo superficiale, perché non è in questo che è Dio. I momenti con la mia famiglia e i miei amici mi mancheranno e sono consapevole di rinunciare a molte cose, ma so che nell’abbazia troverò l’essenziale. È vero che agli occhi degli uomini abbandonare la vita in società forse è una follia, ma non lo è agli occhi di Dio.

Aleteia: A suo avviso, cosa offrono le religiose alla società?
Stéphanie: Le monache si allontanano dal mondo e allo stesso tempo sono molto presenti in esso. Si tengono aggiornate sull’attualità e non perdono l’occasione per pregare per tutta l’umanità. Le loro preghiere sono importanti. Sono vere sentinelle dell’Invisibile: nessuno le vede, ma anche così sono essenziali per la società. Viviamo in un mondo individualista, senza punti di riferimento, che ha bisogno più che mai della presenza spirituale e della preghiera dei religiosi.

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]

22/10/15

Carismatici, sensitivi e medium


François-Marie Dermine
CARISMATICI, SENSITIVI E MEDIUM
I confini della mentalità magica, pagine: 464, anno: 2015, € 28,00
Seconda edizione, Edizioni Studio Domenicano


L’esistenza dei fenomeni paranormali richiede un attento discernimento degli spiriti per indagare sulla loro origine e su chi li manifesta o li produce: carismatici, sciamani, sensitivi, medium. Solo attraverso il discernimento potremo tentare di rispondere a domande come le seguenti: il paranormale che non viene da un santo, o da un carismatico, è da ritenere solo apparente o è da attribuire a un’influenza diabolica? Perché sì a certe rivelazioni private e no ad altre, per esempio a quelle ricevute tramite la scrittura automatica? Perché sì alla profezia del carismatico e no alla preveggenza del cartomante? Perché sì all’apparizione delle anime del purgatorio e no alla loro evocazione? Perché sì all’imposizione delle mani del carismatico e no a quella del pranoterapeuta? Perché sì al santo taumaturgo e semmai no al contadino che “segna”? Le risposte ci porteranno inevitabilmente a dare un volto alla psicologia e alla spiritualità della superstizione, delimitando i confini di una certa mentalità magica e offrendo un giudizio differenziato sulla gravità delle varie pratiche di superstizione. Da qui emergeranno, per contrasto, con maggiore chiarezza, la specificità e l’originalità dei fenomeni paranormali carismatici che si riscontrano in ambito cristiano. 

François-Marie Dermine - Frate domenicano e sacerdote, è nato nel 1949 in Canada e vive in Italia dal 1972. È dottore in Teologia, insegna morale fondamentale presso la Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna a Bologna. È presidente nazionale del GRIS, Gruppo di ricerca e di informazione socio-culturale. Ha scritto Vassula Ryden – Indagine critica (Elledici 1995), Mistici, veggenti e medium – Esperienze dell’aldilà a confronto (Libreria Editrice Vaticana 20022) ed è co-autore de L’estasi (Libreria Editrice Vaticana 2003). È anche autore di diversi articoli in materia di religiosità alternativa.
 

18/10/15

Politica, Metapolitica, Metaetica e Metafisica


di Primo Siena

Il saggio di Alberto Buela su “metaetica e metapolitica” (*) ha stimolato alcune  mie riflessioni critiche.
Buela afferma fin da subito che si tratta di “discipline o meglio, di pluridiscipline che hanno in comune l’essere teologiche, ovvero sono orientate verso un obiettivo o fine che una volta raggiunto rende migliore colui che vi arriva, sia nell’ordine della comprensione che dell’azione” e conclude affermando una differenza sostanziale tra metapolitica e metaetica,  esponendo quindi le motivazioni che lo inducono a tale conclusione. E fin qui concordo con lui. (1)
Le mie differenze con la sua posizione cominciano quando afferma in modo categorico che “vincolare la metapolitica alla metafisica è un errore gravissimo  commesso da tutti coloro che non distinguono in modo chiaro e intelligibile tra ciò che è politico e la politica”. Inoltre, seguendo il sociologo italiano Carlo Gambescia, afferma anche l’impossibilità di postulare la metapolitica come un’etica della politica, in quanto essa deve studiare e investigare la realtà politica per come si manifesta, senza considerare alcuna causa prima o ultramondana.
Da parte mia, insisto nel sostenere l’esistenza di una correlazione ineludibile tra metapolitica e “metafisica della politica”, intesa questa non come una scienza esclusivamente teoretica, ma piuttosto come misura di un pensiero che mira all’azione politica concreta là dove il metapolitico stesso può agire.
Qui m’è d’uopo chiarire la mia riflessione sulla metafisica secondo il magistero di uno dei miei preclari maestri: Marino Gentile.(2)
Il grande Maestro insegnava che la filosofia postula una problematicità radicale che comprende l’esperienza nella sua totalità e fluidità e mira alla ricchezza essenziale del sapere. La filosofia come problematicità radicale, si articola in esperienza, dimostrazione e concetto, al fine di cercare il “principio fondante” della metafisica mediante la distinzione tra sapere e conoscere.
Il conoscere si basa sulle diverse modalità dell’esperienza, mentre il sapere è un conoscere che ha la peculiarità di essere stabile in quanto non tematizzato da altre modalità del conoscere che invece tematizza a sua volta. Inoltre il sapere – afferma Marino Gentile - “non è ipotetico-deduttivo, piuttosto è sapere giustificativo”. Allora filosofare consiste nel cercare la connessione tra l’esperienza “impossibile senza il sapere, e il sapere collegato all’esperienza”. Questo è il sentiero che percorre la filosofia, come problematica radicale, per raggiungere la metafisica concepita non già come scienza separata dalla realtà (come pretende l’antimetafisicismo contemporaneo), bensì come la ricerca più profonda della realtà ultima o realtà dell’essere.
Essendo la radicale problematica del filosofare la condizione specifica della ricerca del principio necessario per spiegare e capire l’esperienza,  essa è destinata a incontrare la religione,  ma non a identificarvisi, perché nella ricerca filosofica Dio costituisce il punto d’arrivo, mentre che -  secondo la teologia -  Dio è il punto di partenza dato dalla Rivelazione divina.
Seguendo questo magistero, insisto nell’affermare il rapporto diretto tra politica e metapolitica, sostenuto inoltre dal pensiero dell’indiano-iberico Raimon Panikkar quando afferma che “dal livello evolutivo del metapolitico, la politica progredisce dal piano dell’arte o della scienza al livello della pienezza esistenziale di ciascun essere umano”.
Ciò che è metapolitico – sostiene Panikkar - “non si può attualizzare né per  separazione né per fuga”; la metapolitica è il lievito che fa fermentare la pasta e la trasforma, ed è, inoltre, “la dimensione nascosta di ciò che è politico, la sua profondità”. Esistono dimensioni dell’essere umano che non appartengono al politico, ma che gli sono indispensabili; per questo motivo il pensatore indiano-iberico definisce metapolitico l’incontro tra la dimensione politica e l’uomo nella sua totalità. “La storia umana  - egli afferma - non si riduce a una successione di guerre. L’attività politica non consiste esclusivamente in un insieme di manovre volte a raggiungere il potere […] Nell’attività politica l’uomo ha successo e si realizza oppure fallisce e si sente frustrato; forgia il proprio destino al quale non può sottrarsi. La politica non è una specialità dei politici e ancor meno dei politologi. E’ patrimonio dell’uomo in quanto nutre la sua vita essendo inseparabile dal metapolitico “.(3)
Panikkar insiste sul fondamento antropologico della metapolitica e ne indica la profonda dimensione umana in quanto luogo nel quale “ogni progetto politico acquisisce la propria anima; anima che è immanente al politico pur trascendendolo. La vera immanenza è sempre il luogo dell’esperienza della trascendenza”.(4) E poiché, secondo Aristotele, l’uomo è un animale politico, la politica è necessaria alla sua realizzazione pur se rappresenta uno solo degli aspetti dell’essere umano. In effetti l’esperienza dell’uomo non è racchiusa solo nella storia, e perciò nella politica, dato che la realtà possiede inoltre una dimensione invisibile, nel contempo immanente e trascendente la vita stessa. “Non esiste solo il temporale, il corporale e il sociopolitico - chiarisce Panikkar - ma senza di esso non esiste nemmeno l’eterno, lo spirituale e il teorico; la realtà è indivisibile”.(5)
Panikkar ci ricorda che lo zoôn politikon di Aristotele vuol significare anche che la “politica appartiene alla religione e la religione alla politica”, poiché gli dèi sono gli dèi della Città; e conclude affermando che la metapolitica unisce finalmente due mondi precedentemente non comunicanti: il mondo religioso e il mondo politico. Due mondi nei quali l’essere umano agisce eticamente sorretto da principi spirituali e trascendenti.
Egli spiega anche che il metapolitico non è sinonimo di transpolitico o di superpolitico in quanto si basa sull’humanum che sorregge il politico, sicché la politica si sviluppa come un’attività essenzialmente umana. Per questo l’esperienza del metapolitico raggiunge la pienezza umana e la sua armonia con il cosmo.
Dal canto suo, il metapolitico italiano Giovanni D’Aloe, formatosi al magistero di Silvano Panunzio, commenta opportunamente al riguardo che Metapolitica e Metafisica sono gemelle, perché “così come la metafisica designa il superamento della natura, la metapolitica designa il superamento della polis in quanto città dell’uomo che a sua volta è il riflesso della città di Dio”.
Il principio di trascendenza risulta, inoltre, implicito nella politica che non può sottrarsi dall’essere considerata come un ramo etico della convivenza umana organizzata (recte scire) in senso fisico, sociologico e giuridico (recte agere). E qui la politica pratica raggiunge infine, nei suoi risultati e conseguenze concrete, la metafisica stessa, come insegnava Marino Gentile, il quale, in una famosa introduzione ad un corso accademico su “Il filosofo di fronte allo Stato” (anno 1960), affermava: “Una filigrana naturale collega l’uomo allo Stato perché non esiste ordine giuridico né morale, come non c’è ordine fisico, senza metafisica”.
Secondo questa prospettiva, nell’azione politica interviene una delicata mediazione tra principi etici e situazioni concrete della vita sociale orientata alle esigenze e necessità dell’uomo, con il proposito di trovare nei codici etici un senso ultimo della vita sia delle persone che delle collettività.
Ma qui emerge un’altra discrepanza con Alberto Buela, il quale sostiene che: “l’etica non può stabilire norme; esse vengono da una tradizione vissuta, da un éthos vigente, e l’etica è solo un chiarimento teorico di questo éthos. Possiamo chiarire solo quello che già ci determina per quello che siamo. Per tanto non si può raggiungere né una fondamentazione ultima né un éthos universale”.
Francamente (e me ne dispiace) non posso condividere il sorprendente determinismo che qui affiora nel pensiero di Buela. Continuo a pensare che non appartenendo l’etica all’ambito della fisica (vale a dire, della materialità), la politica stessa presenta allora un fondamento antropologico collegato all’éthos che a sua volta recupera l’essenza dell’essere umano nella sua alta e profonda dignità di creatura.
Giustamente il mio altro maestro nell’ateneo patavino, Umberto Antonio Padovani, affermava che la politica, come “arte del buon governo” (poiché il “mal governo” appartiene alla criptopolitica e non alla politica positiva), è orientata a risolvere positivamente ed equamente la problematicità della vita associata. In conseguenza Padovani sviluppava la logica fondamentale del discorso politico come un sillogismo la cui premessa maggiore, filosofica, è costituita dalla teoria generale che la politica deriva dall’antropologia e dalla morale; mentre la premessa minore è formata dalla situazione concreta di un determinato popolo secondo i parametri delle scienze sociali.
Poiché l’ethos si rapporta all’essere della persona considerata nella sua essenza profonda che la costituisce, la politica – scienza sociale dell’essere umano - raggiunge di conseguenza la metafisica come condizione fondante della metapolitica.
Alberto Buela conclude affermando che “in metapolitica, d’altra parte, non parliamo di ethos bensì di ecumeni, ovvero di grandi spazi di terra abitati da uomini che condividono lingue, credenze, abitudini e un ethos particolare”.
Sinceramente, qui non capisco la posizione di Alberto il quale dopo aver sostenuto che “l’etica non può fare regole” perché “queste vengono da una tradizione vissuta, da un ethos vigente”, essendo essa “solo un chiarimento teorico di questi ethos”, finisce per contrapporla agli ecumeni. Egli parla di ecumeni e non di ethos perché “l’idea di ecumene è alla base delle concezioni geopolitiche in quanto implica grandi spazi. Che ieri furono l’Ellade per i greci e la Romanitas per i romani, come oggi lo sono Iberoamerica per noi o Angloamerica per gli yankee. L’idea di ecumene mostra che il mondo è in realtà un pluriverso e non un universo, come lo pensò l’illustrazione e il liberalismo politico”.
Mentre condivido l’idea degli ecumeni – e la sua contrapposizione tra pluriverso (che rappresenta meglio la diversità del glocalismo rispetto al  globalismo totalizzante) e universo- mi risulta invece difficile capire perché negli spazi degli ecumeni non possa rientrare l’etica, sia individuale che collettiva, dato che l’ethos ha radici nell’essenza qualitativa  dell’uomo singolo come anche nella comunità di persone.
Supporre che nell’Ellade greca pensatori come Socrate, Platone, Aristotele e che nella Romanitas, uomini come Catone, Cicerone, Seneca, Marco Aurelio (solo per citarne qualcuno) ignorassero l’etica, mi sembra un’incongruenza imperdonabile.
 Per me la politica – che non può essere estranea agli ecumeni - esprime anche una delicata ma necessaria mediazione tra i principi e i valori etici, e le situazioni concrete della vita sociale con il proposito di raggiungere il senso ultimo della vita individuale e collettiva.
Una ulteriore discrepanza con Alberto Buela concerne il pessimismo che lo induce a condividere con Heidegger l’idea che “dopo lo sconvolgimento della seconda guerra mondiale che lasciò sessanta milioni di morti nel cuore dell’Europa, si è spezzata qualunque possibilità di esistenza di un ethos universale come costitutivo basico per un umanesimo. Così che parlare di umanesimo si è convertito in un non senso”.
Ammetto che l’uso e l’abuso dei vocaboli umanesimo e humanitas nel corso degli ultimi secoli ci abbiano somministrato umanesimi dalle più diverse sfumature: quello socialista di Jaurés, quello cristiano di Maritain, quello esistenzialista di Sartre, fino ad arrivare a un umanesimo in chiave libertaria che cerca di incorporare – come commenta Jacques Lafaye - la pianificazione economica ed ecologica “ad una prospettiva sedicente umanista”.(6) E in effetti si può concordare sul fatto che si tratti di un concetto troppo usato e abusato con molteplici significati (persino contraddittori tra di loro) per potergli affidare un ulteriore senso positivo, come denunciava Heidegger nella sua “Lettera sull’Umanesimo” (1946).
Queste adulterazioni del vocabolo umanesimo abbisognano necessariamente di una rettifica semantica del concetto, coerente con la sua origine ed eredità storica che risale all’uomo romano considerato come uomo fondazionale: l’homo conditor, aderente alla terra ed unito ad essa dalla sacralità che sgorga dall’uomo stesso in quanto agricoltore che coltiva la justissima tellus (così Carl Schmit definisce la terra perché accoglie, nutre e ricompensa l’uomo per il suo lavoro).(7)
Nella lingua latina il vocabolo agricoltura indica “una direzione fondazionale dove il fondazionale si unisce al sacro nel medesimo contesto”. Quando il romano rompe la terra e raccoglie i suoi frutti, “ne percepisce la sacralità e attraverso l’agricoltura compie un’azione sacra”. (8)
L’homo conditor romano ha la sua proiezione storica nell’eroe politico del quale ci parla Gian Battista Vico nella sua Scienza Nuova: l’uomo che brucia la ingens sylva (la foresta selvaggia) per ridurla a terra coltivabile e iniziare così i cicli storici secondo una prospettiva religiosa che trova la sua matrice nell’altare sul quale arde il fuoco sacro che alimenta e riscalda la vita.
Qui l’umanesimo dell’homo conditor romano coincide precisamente con la figura del conquistatore iberico che nella nostra America fu fondatore di città, popolò i territori conquistati e si integrò a poco a poco ai popoli nativi mediante un processo capace di forgiare in modo eccezionale una nuova civiltà e una stirpe meticcia sorta dalla fusione di culture e razze tra conquistati e conquistatori; mistura di guerrieri, monaci e avventurieri che ha generato i tratti dell’uomo indo-iberoamericano il quale possiede nel sangue una parte dell’idalgo e del gaucho, dell’europeo esiliato, dell’indio oppresso e del meticcio insicuro.
L’homo conditor romano aspira alla trascendenza dell’homo theoreticus greco che coltiva l’amore contemplativo per la verità; perché il coltivatore della terra e il costruttore di città ha necessità di incorporare la profanità tellurica alla sacralità attraverso la partecipazione a un ordine numinoso. Ma l’unione dell’homo conditor con l’homo theoreticus ha bisogno anche di un terzo elemento rappresentato dall’homo mediator spinto dall’eredità dell’homo conditor; eredità assunta secondo una coscienza escatologica, vale a dire, dalla preoccupazione per il fine ultimo dell’umanità in transito sulla terra.
Tutti questi elementi restituiscono il giusto senso all’umanesimo concepito - come insegnava il mio maestro Marino Gentile - come essenza della filosofia, perché la vera natura dei concetti ha il suo fondamento nell’essere umano il quale non si sviluppa per arbitrio nel mondo della storia, ma mediante libertà e varietà.(9) Cosicché il fondamento teoretico dell’umanesimo si esprime nel sapere filosofico implicante “il problema metafisico e il suo recupero attraverso il valore classico della tradizione greco-romana, inserita però nelle esigenze del sapere contemporaneo”.
Mentre Alberto Buela conclude “che non esiste nessuna ragione seria e fondata per sostenere l’esistenza di un nuovo umanesimo” poiché “tanto la metaetica come la metapolitica ci mostrano questa verità”, io mi azzardo a sostenere tutto il contrario, perché privare la metapolitica del suo rapporto intrinseco con la metafisica, l’etica e l’umanesimo significa svuotarla di ogni senso e contenuto, cioè farla diventare sterile.
Raccogliendo ancora una volta il magistero di Marino Gentile, affermo insieme a lui: “L’umanesimo è celebrazione della bellezza della persona in quanto si identifica nel sapere filosofico che senza residuo dogmatico alcuno, problematizza tutta la realtà e considera la storia dell’uomo in tutte le sue espressioni spirituali”.(10)
In quest’ottica umanistica la metapolitica sviluppa una feconda dialettica tra la gradualità dei valori etici e le istanze pratiche della politica, chiarendo in tal modo la capacità della politica stessa di dirigersi verso una soluzione positiva del problema della vita (veritas salutaris), ispirata a un fondamento olistico della persona umana restituita alla sua missione fondazionale pro aris et focis. Ovvero, essa suscita e favorisce nell’inquieta società del terzo millennio, la riunione di uomini liberi secondo la tradizione universale romano-cristiana nella quale affiora nuovamente il progetto metapolitico di indirizzare l’homo viator dell’era post moderna del ventunesimo Secolo verso un modello di civiltà capace di elevare l’arte del buon governo della Civitas hominum attraverso la riconciliazione personale e l’armonia sociale sostenute dalla Giustizia e dalla Concordia.
Solo all’uomo, tra i diversi esseri viventi della terra, è concessa la possibilità di raggiungere la grande Apokastasis, vale a dire, il ripristino di ogni cosa alla condizione originale che accompagna il trionfo del “rinascimento interiore” come riaffermazione della libertà responsabile dell’uomo, rinato in spirito e verità per riscattare in se stesso i veri e abbandonati diritti dell’essere umano, secondo il suggestivo magistero di Giovanni Pico della Mirandola conchiuso felicemente e brillantemente nel De hominis dignitate: creatura divina nel divino Pluriverso.

NOTE
1.- Essendo la metaetica una disciplina segnata dall’utilitarismo e dal pragmatismo, come giustamente chiarisce Alberto Buela, secondo il mio parere può apportare ben poco alla metapolitica, almeno come io la concepisco (ovvero, in senso verticale), e che valuta la politica diffondendosi per i sentieri ardui della metafisica e dell’escatologia.
2.- Marino Gentile (1906-1991). Formatosi secondo il magistero spiritualista cristiano di Armando Carlini nelle prestigiosa Scuola Normale dell’Università di Pisa; Cattedratico nell’antica Università di Padova (1951-1989), fu il fondatore e animatore della “scuola patavina di filosofia” impegnata nella riscoperta, in prospettiva attuale, della filosofia aristotelica concepita come un contributo al riscatto della metafisica classica.
3.- Cfr. R. PANIKKAR, El espíritu de la política: homo politico. Península, Barcelona 1999, p.14.
4.- IBIDEM, p. 170.
5.- R. PANIKKAR, Paz y desarme cultural. Ed. Sal Terrae, Santander 1993, p. 103.
6.- Cfr. JACQUES LAFAYE, Por amor al griego, México 2005.
7.- Cfr. C. SCHMIT, Il nomos de la????? Terra. Ed. Adelphi, Milano 1991, p. 20.
8.- Cfr. C.A. DISANDRO, Humanismo. Fuentess y desarrollo histόrico. Ed. Decuss 2004, p. 364-369.
9.- Cfr. M. GENTILE, Che cos’è il sapere. Introduzione umanistica alla filosofia. Ed. La Scuola, Brescia 1947, p. 11.
10.-Cfr. M. GENTILE, L’Umanesimo. Saggio pubblicato in Le basi dell’unità europea. Atti dell’Istituto Internazionale di Studi Superiori “Antonio Rosmini”, Bolzano 1956.

(traduzione dallo spagnolo di Letizia Fabbro)