11/12/15

La guerra civile islamica






“omnia divina humanaque iura permiscentur” (Cesare, De bello civili, I, 6)

La guerra civile è propriamente un conflitto armato di ampie proporzioni, in cui le parti belligeranti sono costituite principalmente da cittadini di un medesimo Stato; obiettivo di ognuna delle due fazioni in lotta è la distruzione totale dell’avversario, fisica e ideologica. Tuttavia tale definizione può essere applicata in modo estensivo: Ernst Nolte, ad esempio, chiama “guerra civile europea” il conflitto delle due ideocrazie che, nel periodo compreso tra la Rivoluzione d’Ottobre e la sconfitta del Terzo Reich, hanno cercato di annientarsi reciprocamente. Guerra civile, ma combattuta su scala mondiale, fu secondo Nolte anche la guerra fredda: uno “scontro politico-ideologico tra due universalismi militanti, ciascuno dei quali era in possesso almeno di un grande Stato, uno scontro la cui posta in gioco era la futura organizzazione di un mondo unitario” (1).
In una certa misura, è possibile estendere la definizione di “guerra civile” al conflitto politico e militare che, nell’odierno mondo musulmano, contrappone Stati, istituzioni, movimenti, gruppi e fazioni appartenenti alla stessa comunità (umma). Un conflitto di tal genere viene indicato dal lessico islamico mediante il termine arabo fitna, al quale ricorre il Corano laddove esso afferma che “la sedizione è più violenta della strage” (al-fitnatu ashaddu min al-qatl) (2).
La prima fitna nella storia dell’Islam è quella che lacerò la comunità musulmana durante il califfato dell’Imam ‘Ali. Conclusasi la rivolta dei notabili meccani con la loro sconfitta nella Battaglia del Cammello, la fitna riesplose con la ribellione del governatore della Siria, Mu’awiya ibn Abi Sufyan, il quale, dopo aver affrontato a Siffin l’armata califfale e dopo essersi impadronito dell’Egitto, dello Yemen e di altri territori, nel 661 diede inizio alla dinastia omayyade. Una seconda fitna contrappose il califfo omayyade Yazid ibn Mu’awiya al nipote del Profeta Muhammad, al-Husayn ibn ‘Ali, che il 10 ottobre 680 conobbe il martirio nella Battaglia di Kerbela. La terza fitna fu lo scontro interno alla famiglia omayyade, che spianò la strada alla vittoria abbaside. La quarta fu la lotta fratricida tra il califfo abbaside al-Amin e suo fratello al-Ma’mun.
La prima e la seconda fitna, lungi dall’essersi risolte in un mero fatto politico, sono all’origine della divaricazione dell’umma islamica nelle varianti sunnita e sciita: due varianti corrispondenti a due prospettive della medesima dottrina e perciò definibili come “dimensioni dell’Islam insite in esso non per distruggere la sua unità, ma per rendere atta a parteciparvi una più ampia parte di umanità e individui di differente spiritualità” (3).
Ora, mentre la maggior parte degli Arabi, dei Turchi, dei Pakistani è sunnita, come sunnita è pure l’Indonesia, che è il più popoloso dei paesi musulmani, il nucleo più compatto e numericamente consistente dell’Islam sciita è rappresentato dal popolo iraniano. Questa stretta relazione dell’Iran con la Scia viene oggi utilizzata in un quadro strategico ispirato alla teoria dello “scontro di civiltà”: i regimi del mondo musulmano alleati degli Stati Uniti e di Israele fanno un ricorso strumentale al dualismo “Sunna-Scia” al fine di eccitare lo spirito settario e dirigere le passioni delle masse contro la Repubblica Islamica dell’Iran, dipinta come irriducibile nemica dei sunniti e presentata come nucleo statuale dell’egemonia regionale “neosafavide” (fu sotto la dinastia safavide che nella Persia del XVI secolo la Scia diventò religione di Stato).
L’alimento ideologico del settarismo antisciita è costituito soprattutto, anche se non unicamente, dalle correnti wahhabite e salafite, le quali fin dal loro apparire sono state oggetto di riprovazione e di condanna da parte dell’ortodossia sunnita. Circa lo storico rapporto di solidarietà che collega tali manifestazioni di eterodossia all’imperialismo britannico e statunitense, ci siamo già dilungati altrove (4). Qui sarà opportuno osservare che il più recente e virulento prodotto delle suddette correnti, ossia il sedicente “Stato Islamico” (Daesh, Isis, Isil ecc.), palesemente sostenuto da Arabia Saudita, Qatar e Turchia, è lo strumento di una strategia americana finalizzata ad assicurare al regime sionista l’egemonia sul Vicino Oriente e quindi ad impedire il formarsi di un blocco regionale che dall’Iran si estenda fino al Mediterraneo.
Occorre inoltre notare la significativa somiglianza che intercorre tra il caricaturale e parodistico “Califfato” di al-Baghdadi e la petromonarchia saudita. Gli efferati e bestiali atti di sadismo compiuti dagli scherani del cosiddetto “Stato Islamico”, la devastazione sacrilega dei luoghi di culto tradizionali e la vandalica distruzione dei siti della memoria storica in Siria e in Iraq, infatti, costituiscono altrettante repliche di analoghi atti di barbarie commessi dai wahhabiti nella penisola arabica (5). Il cosiddetto “Stato Islamico”, come è stato ampiamente mostrato sulle pagine di questa rivista 6, non è se non una forma radicale e parossistica di quella particolare eterodossia che ha il proprio eponimo in Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab. D’altronde, sia l’entità saudiana sia la sua replica denominata “Stato Islamico” devono entrambe la loro nascita e il loro sviluppo agl’interessi angloamericani ed alle scelte operative della geopolitica atlantica.
La “guerra civile” islamica, la fitna che oggi divampa nel mondo musulmano, trae dunque origine dall’azione combinata di un’ideologia settaria e di una strategia che i suoi stessi ideatori hanno chiamata “strategia del caos”.
Claudio Mutti è Direttore di “Eurasia”.
NOTE
1. Ernst Nolte, Deutschland und der Kalte Krieg (2a ed.), Klett-Cotta, Stuttgart 1985, p. 16.
2. Corano, II, 191.
3. Seyyed Hossein Nasr, Ideali e realtà dell’Islam, Rusconi, Milano.
4. Claudio Mutti, L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. IX, n. 4, ott.-dic. 2012, pp. 5-11.
5. Carmela Crescenti, Lo scempio di Mecca, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, n. 4, ott.-dic. 2014, pp. 61-70.
6. Jean-Michel Vernochet, Le radici ideologiche dello “Stato Islamico”, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, n. 4, ott.-dic. 2014, pp. 81-85.

06/12/15

Una biografia di Jordi Magraner


Gabi Martinez: “Histoire vraie de l'homme qui cherchait le yéti” (Autrement – 2013)

Sul finire degli anni ottanta (1987-1990), Jordi Magraner, zoologo franco-spagnolo, organizzò un’incredibile spedizione scientifica alla ricerca del mitico “Barmanou” (o Barmanu o Baddmanus), un primate umanoide bipede più volte segnalato dalle comunità montane del Pakistan, omologo dell’“abominevole uomo delle nevi” o altrimenti detto “Yeti” himalayano e del Big Foot nord-americano.
Jordi Magraner (nome catalano) nasce e vive in Francia a Valence nei pressi di Lione e si laurea in zoologia a Parigi. Qui entra subito in stretti rapporti con il Museo Nazionale di Storia Naturale che gli finanzia le prime due spedizioni. Le sue esplorazioni lo portano subito a dubitare della validità complessiva della teoria evoluzionistica formulata da Darwin e a riconoscere come possibile la sopravvivenza fino ai giorni nostri di qualche specie di ominide. Con metodo di indagine rigoroso Magraner raccoglie le numerose testimonianze dei pastori nomadi del Pakistan che gli raccontano con assoluta verosimiglianza dei loro incontri con un essere dalle parvenze scimmiesche.  Le descrizioni combaciano perfettamente, a tal punto da consentire al nostro ricercatore di tracciare  un identikit coerente. Non solo. Nei suoi resoconti di viaggio, Magraner, racconta di come egli stesso fu testimone di simili incontri, confermati, tra l’altro, dai suoi stessi compagni di viaggio.   
Magraner non si interessò solo all'uomo Barmanu, ma riuscì anche ad integrarsi con l'affascinante comunità nomade di Kalash (o Kalasha) delle valli di Birir, Rumboor e Bumburate; un gruppo etnico di poco più di un migliaio di individui, di tradizione sciamanica e di probabile origine europea, forse discendenti di una legione dell’imperatore Alessandro Magno. A tale proposito, la loro fisionomia non sembra lasciare spazio a dubbi: occhi chiari e pelle ambrata. Magraner riesce a integrarsi perfettamente tra queste genti e ne assimila velocemente lingua, costumi e cultura. Cercherà poi in tutti i modi possibili di preservarne l’esistenza storica. Purtroppo dopo gli attentati dell’11 settembre le valli del Kalash subiscono le frequenti incursioni dei fanatici talebani che sospettano aprioristicamente di tutti gli occidentali e probabilmente considerano Magraner una spia o anche un proselitista cristiano. Nel 2002 accade purtroppo l'inevitabile: il povero Magraner viene brutalmente assassinato con il solito rito della decapitazione e la stessa sorte toccherà ai suoi più stretti collaboratori.  
Jordi Magraner è stato un personaggio leggendario, romantico, anacronistico e insomma controcorrente. Uno di quegli uomini di cui non ce n'è più e di cui avvertiamo con sempre più profonda tristezza l’assenza. Bisogna pertanto essere grati a Gabi Martinez  che con straordinaria accuratezza giornalistica e precisione documentale ne ha ricostruito in un saggio lungo (più di 500 pagine!) ma avvincente l'avventurosa vicenda.
A.L.F.

01/12/15

REZA SHAH-KAZEMI, Dalla spiritualità del jihad all'ideologia del jihadismo

Un’importante definizione di taṣawwuf è riportata nel libro di ʿAlī al-Hujwīrī (m. 456/ 1063), Kashf al-mahjūb (Svelamento di ciò che è velato), uno dei più importanti manuali antichi del Sufismo classico: «Oggi, il Sufismo è un nome senza una realtà; prima era una realtà senza un nome». In altre parole, si ritiene che i valori propri del Sufismo esistessero già al tempo del Profeta e dei suoi compagni, dove tale realtà veniva vissuta, invece che etichettata. Dopo averci fornito questa definizione, al-Hujwīrī aggiunge che coloro che rifiutano il Sufismo stanno di fatto rifiutando «l’intera legge sacra dell’Apostolo e le sue qualità tanto elogiate».
Ora, potrebbe stupirci il fatto che un rifiuto del Sufismo sia allo stesso modo considerato un rifiuto della legge divina nella sua totalità. L’accento, però, dovrebbe essere posto proprio su questa “totalità”; perché se l’Islam viene ridotto a un’osservanza meccanica di regole esteriori, allora non sarebbe una religione nel pieno senso del termine. O per lo meno sarebbe una religione senza una vita interiore: per questo vediamo il grande al-Ghazālī chiamare la sua opera principale "Rivivificazione delle Scienze della Religione"; ed è chiaro dai suoi scritti che i valori spirituali propri del Sufismo forniscono questa vita interiore della religione.
Inoltre, sono sempre i Sufi, tradizionalmente, coloro che assimilarono in modo più profondo l’universalità propria al messaggio del Corano. Non sorprende il fatto che i più alti rappresentanti del Sufismo erano quelli più sensibili alla sacralità della vita umana, all’innata santità dell’essere umano, qualsiasi sia la sua religione; e non ci stupisce neanche che i più ostili al Sufismo sono coloro che mostrano un disprezzo sconvolgente per l’inviolabilità della vita umana.Sta diventando sempre più ovvio per chi osserva con intelligenza il mondo islamico che i più inclini alla violenza sono membri di un takfīrī deviato, diramazione di diversi movimenti radicali che non solo sono puramente “ideologici”, ma sono anche i più ostili al Sufismo e a tanti valori considerati tra i più sacri nella tradizione spirituale dell’Islam.
REZA SHAH-KAZEMI, Dalla spiritualità del jihad all'ideologia del jihadismo
in (S.H.Nasr, J.L. Esposito, R. Shah-Kazemi), L'ISLAM E LA VIOLENZA (Irfan Edizioni, prossima uscita)