23/09/16

Pavel A. Florenskij: La filosofia del culto



Pavel A. Florenskij, La filosofia del culto,
a cura di Natalino Valentini, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2016, pp. 600.

Breve presentazione

La filosofia del culto, proposta in prima traduzione mondiale dopo quasi un secolo dalla sua stesura, nasce da un ciclo di incandescenti lezioni pubbliche svolte da Pavel A. Florenskij a Mosca nell’estate del 1918, di fronte ai primi segnali di persecuzione e alla convulsa disgregazione della società russa ed europea.
L’opera attesa da tempo e pubblicata a Mosca nel 2004 nella sua prima versione completa, (presso le edizioni Mysl’) dopo anni di accurato lavoro sui manoscritti originali, si configura come una delle raccolte più preziose ed esemplari del pensatore russo, forse la sua elaborazione teoretica più ardita e matura, unitamente a La colonna e il fondamento della verità (che solitamente viene considerato il suo capolavoro).
Essa si struttura in nove capitoli, ognuno con una propria compiutezza e peculiarità, tenuti insieme da un continuo e ritmato palpitare di nessi che ha il suo fulcro portante nel culto quale atto generativo della cultura e del pensiero. Florenskij non si limita a ricollocare il culto al cuore della riflessione filosofica, considerandolo il centro della visione del mondo, ma mostra come molti dei nuclei vitali di cui si nutre inconsapevolmente la nostra cultura secolarizzata e laicizzata affondino le loro radici proprio in esso.
Si tratta di un’opera di fenomenologia e filosofia della religione del tutto inconsueta per la storia del pensiero occidentale, certamente tra le più poderose del XX secolo dedicate al culto e alla liturgia cristiana. Essa tiene insieme, con sorprendente rigore teoretico, filosofia e teologia, fenomenologia ed estetica, logica e mistica, per giungere a una sorta di sintesi globale di visione cosmica del mondo.
Accompagnandoci in questo percorso alle sorgenti del culto e dei suoi ordinamenti antropologici e culturali, l’Autore insiste sull’inscindibile connessione tra culto, cultura e filosofia rintracciando un filo conduttore che dal pensiero dell’antichità (dalla filosofia alessandrina e neopitagorica) passa per Platone e il neoplatonismo, attraversando la cultura medievale (soprattutto bizantina), la filosofia del primo Rinascimento italiano, per poi approdare insospettabilmente all’opera di Kant e ai sui effetti sul pensiero moderno e contemporaneo. 
Lungo questo percorso stratificato, entro il quale si intrecciano le diverse forme logiche, ontologiche e simboliche della conoscenza, Florenskij va alla ricerca degli archetipi del culto nella tradizione filosofica e teologica pre-cristiana, per poi mostrarne i tratti di continuità e di discontinuità nel passaggio verso la ricchezza misteriosa e sfavillante dei riti della Chiesa orientale, lasciandoci intravvedere nelle fenditure del reale e nelle antinomie della verità l’azzurro dell’eterno. In virtù della simbolicità delle sue forme, il culto invita a pensare la vita e il contatto con la realtà in modo globale (cioè realistico-concreto e metafisico insieme), mostrando profondi nessi tra la sfera soggettiva ed oggettiva, interiore ed esteriore, empirica e spirituale dell’esistenza, comprendendo ogni pensiero, parola o opera come un simbolo ontologico e incarnato.
Come già in Ikonostas (Le porte regali), che originariamente era stata concepita da Florenskij come parte integrante di questa opera, anche il culto, entro il quale l’icona prende vita e significato, è il luogo per eccellenza della memoria e della relazione vitale tra “i due mondi”, il simbolo della presenza, oltre il visibile apparire, nella ferma convinzione che: «Le radici del visibile sono nell’invisibile, i fini dell’intelligibile nell’inintelligibile. E il culto è il punto fermo dell’universo per il quale e sul quale l’universo esiste».

INDICE

Introduzione. Comprendere il culto e risvegliare il pensiero di N. Valentini
Nota Bibliografica (N. Valentini)
1.      Il timor di Dio
2.     Il culto, la religione e la cultura
3.     Il culto e la filosofia
4.     I sacramenti e i riti
5.     I sette sacramenti
(con in appendice: La deduzione dei sette sacramenti)
6.      I tratti della fenomenologia del culto
(con in appendice: Mesjaceslov).
7.     La santificazione della realtà
8.     I testimoni
9.     Il culto della parola (la preghiera)
(Indice dei Nomi)

19/09/16

Un indianista che parlava bene di René Guénon


René Guénon è certamente in Italia un nome più noto di quello di Sylvain Lévi, grazie alla pubblicazione delle sue opere da parte della casa Adelphi (che d'altronde ha pubblicato l'opera di Lévi La dottrina del sacrificio nei Brāhmaņa, con la traduzione di Silvia D’Intino), e alla sua forte proposta ideologica della 'Tradizione' sotto il segno dell'esoterismo. Guénon non si può considerare un indianista, certo non era un accademico, però seguì i corsi al College de France di Sylvain Lévi, allora massima autorità dell'indologia francese, e presentò alla Sorbona nel 1921 come tesi di dottorato in Lettere la sua Introduction générale à l’étude des doctrines hindoues, come si apprende in un articolo (René Guénon et l'Hindouisme) di Pierre Feuga, che si definisce 'Professeur de Yoga'
(http://pierrefeuga.free.fr/guenon.html#_ftnref15). E' sorprendente leggere che il grande indianista si dimostrò aperto verso la tesi di Guénon, nonostante contestasse l'indologia accademica occidentale. Così si esprime il Lévi a proposito della tesi:
En tout cas, il [Guénon] témoigne d’un effort personnel de pensée qui est respectable et que les philosophes apprécieront ; il apporte une conception curieuse des systèmes philosophiques de l’Inde, qui tout en choquant les indianistes peuvent les inviter à d’utiles réflexions. Enfin, la Faculté donnera une preuve manifeste de son libéralisme en acceptant cette critique violente de la ‘science officielle’ des philosophes comme des indianistes. Je crois donc devoir vous engager, Monsieur le Doyen, à accorder votre visa à la thèse de Monsieur Guénon.
Un liberalismo e un'apertura mentali abbastanza straordinarie per un accademico, considerato il rifiuto di Guénon per il metodo storico e il suo attacco totale all'orientalismo accademico, e tanto più in un'epoca come quella, segnata dal Positivismo. Tuttavia, nonostante tale illustre parere, al Doyen Brunot l'eresia di Guénon dovette apparire davvero eccessiva, e rifiutò l'approvazione.
Secondo il Feuga, Guénon fu poi aspramente criticato dall'indologia francese (in particolare dal fondamentale sanscritista Louis Renou) e nessun universitario si azzarda ad ammettere pubblicamente il suo apporto costruttivo. Del resto, lo stesso Sylvain Lévi, secondo la scarna voce di Wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/Sylvain_Levi), è stato uno dei primi oppositori di Guénon, "citing the latter's uncritical belief in a "Perennial philosophy", that is, a primal truth revealed directly to primitive humanity, based on an extreme reductionist view of Hinduism."
In effetti, il concetto guénoniano di Tradizione primordiale appare inaccettabile, o almeno inverificabile, da un punto di vista storico-critico, e alcune generalizzazioni di Guénon sull'India e l'Oriente appaiono più frutto delle sue predilezioni che realtà storica; Guénon si muove in un'ottica fortemente 'orientalista' nel senso di Edward Said, affermando il classico stereotipo dell'immobilità dell'Oriente, anche se rovesciando la consueta valutazione negativa di questo fatto in positiva (fedeltà alla Tradizione). Comunque la conoscenza da parte di Guénon del pensiero indiano è vasta e approfondita, e il suo punto di vista vuole essere rigorosamente aderente a quello 'indù' autentico, tanto che - racconta Feuga - il famoso indianista Alain Daniélou, quando presentò l'opera di Guénon a dei Pandit ortodossi, ne ricavò questo giudizio:
de tous les Occidentaux qui se sont occupés des doctrines hindoues, seul Guénon, dirent-ils, en a vraiment compris le sens.

Giacomo Benedetti

http://sanscritonline.blogspot.it/search?updated-max=2009-05-31T11:30:00%2B02:00&max-results=7&start=49&by-date=false

14/09/16

BENEDETTO XVI ULTIMO PAPA? “TUTTO PUO’ ESSERE”, RISPONDE LUI.

Ma chi è oggi il Papa e precisamente quanti ce ne sono? La confusione regna sovrana e la nuova uscita di Benedetto XVI – il libro-intervista “Ultime conversazioni” – invece di dissolvere i dubbi li moltiplica.
Parto dal dettaglio più curioso.
Domanda Peter Seewald a Benedetto XVI: “Lei conosce la profezia di Malachia, che nel medioevo compilò una lista di futuri pontefici, prevedendo anche la fine del mondo, o almeno la fine della Chiesa. Secondo tale lista il papato terminerebbe con il suo pontificato E se lei fosse effettivamente l’ultimo a rappresentare la figura del papa come l’abbiamo conosciuto finora?”.
La risposta di Ratzinger è sorprendente: “Tutto può essere”. Poi addirittura aggiunge: “Probabilmente questa profezia è nata nei circoli intorno a Filippo Neri” (cioè la chiama “profezia” e la riconduce a un grande santo e mistico della Chiesa). Conclude con una battuta di alleggerimento, ma quella è stata la sua risposta.
LA ROTTURA
Dunque Benedetto XVI ritiene di essere stato l’ultimo papa (per la fine del mondo o la fine della Chiesa)? Probabilmente no. Allora ritiene – almeno secondo la versione dell’intervistatore – di essere stato l’ultimo ad aver esercitato il papato come l’abbiamo conosciuto per duemila anni? Forse sì.
E anche questa seconda fa sobbalzare, perché è cosa nota che il papato – d’istituzione divina – per la Chiesa non può essere cambiato da una volontà umana.
Del resto quale cambiamento? C’è una rottura nell’ininterrotta tradizione della Chiesa?
Un altro flash del libro porta in questa direzione. “Lei si vede come l’ultimo papa del vecchio mondo” domanda Seewald “o come il primo del nuovo?”. Risposta: “Direi entrambi”.
Ma che intende dire? Cosa significa “vecchio” e “nuovo”, soprattutto per uno come Benedetto XVI che ha sempre combattuto l’interpretazione del Concilio come “rottura” della tradizione e ha sempre affermato la necessaria continuità, senza cesure, della storia della Chiesa?
A pagina 31 Seewald afferma (e il testo è stato rivisto e vidimato da Benedetto XVI) che Ratzinger ha compiuto un “atto rivoluzionario” che “ha cambiato il papato come nessun altro pontefice dell’epoca moderna”.
Questa tesi – che evidentemente allude all’istituzione del “papa emerito” – ha qualche aggancio con le cose che dice Ratzinger in questo libro? Sì, a pagina 39.
IL GIALLO
Prima di riassumere cosa dice qui papa Benedetto, però, devo ricordare che la figura del “papa emerito” non è mai esistita nella storia della Chiesa e i canonisti hanno sempre affermato che non può esistere, in quanto il “papato” non è un sacramento, come invece è l’ordinazione episcopale, infatti in duemila anni tutti coloro che hanno rinunciato al papato sono tornati allo status precedente, mentre i vescovi rimangono vescovi anche quando non hanno più la giurisdizione di una diocesi.
Ciononostante Benedetto XVI, negli ultimi giorni del suo pontificato, andando contro tutto ciò che i canonisti avevano sempre sostenuto, annunciò che lui sarebbe diventato appunto “papa emerito”.
Non ne spiegò il profilo teologico, però nel suo ultimo discorso affermò: “La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo”.
Benedetto accompagnava tali parole con la decisione di restare in Vaticano, di continuare a vestirsi con la tonaca e zucchetto bianchi, di conservare lo stemma papale con le chiavi di Pietro e il titolo di “Sua Santità Benedetto XVI”.
Ce n’era abbastanza per chiedersi cosa stava accadendo e se si era veramente dimesso dal papato. Cosa che io feci su queste colonne, anche perché nel frattempo il canonista Stefano Violi aveva studiato la “declaratio” di rinuncia ed era arrivato a queste conclusioni: “(Benedetto XVI) dichiara di rinunciare al ministerium. Non al Papato, secondo il dettato della norma di Bonifacio VIII; non al munus secondo il dettato del can. 332 § 2, ma al ministerium, o, come specificherà nella sua ultima udienza, all’‘esercizio attivo del ministero’ ”.
In seguito ai miei articoli, il vaticanista Andrea Tornielli, molto vicino a papa Francesco, nel febbraio 2014, andò a domandare a Benedetto XVI perché era rimasto papa emerito e la sollecitata risposta fu questa: “Il mantenimento dell’abito bianco e del nome Benedetto è una cosa semplicemente pratica. Nel momento della rinuncia non c’erano a disposizione altri vestiti”.
Il vaticanista in questione sbandierò ai quattro venti lo scoop che, però, a una seria osservazione, si rivelava un’elegante battuta umoristica (in Vaticano non c’erano tonache nere?) per eludere una questione di cui Benedetto XVI, evidentemente, a quel tempo non poteva parlare.
E infatti ne parla oggi, dopo tre anni, spiegando le ragioni di quella scelta che ovviamente non c’entrano nulla con questioni sartoriali.
SEMPRE PADRE, SEMPRE PAPA
Dunque nel libro appena uscito papa Ratzinger parte dalla riflessione sui vescovi. Quando si trattò di decidere le loro dimissioni a 75 anni si istituì il “vescovo emerito” perché – dicevano – “io sono ‘padre’ e tale resto per sempre”.
Benedetto XVI osserva che anche quando “un padre smette di fare il padre”, perché i figli sono grandi, “non cessa di esserlo, ma lascia le responsabilità concrete. Continua a essere padre in un senso più profondo, più intimo”.
Per analogia papa Ratzinger fa lo stesso ragionamento sul papa: “se si dimette mantiene la responsabilità che ha assunto in un senso interiore, ma non nella funzione”.
Questo ragionamento poetico però è esplosivo sul piano teologico perché significa che lui è Papa.
Per capire il quadro teologico che sta dietro la rivoluzionaria pagina di Ratzinger bisogna rileggere il clamoroso testo della conferenza che il suo segretario, mons. Georg Gaenswein, ha tenuto il 21 maggio scorso alla Pontificia università Gregoriana.
CLAMOROSO
In quel discorso – “censurato” dai media, ma che in Curia è stato una bomba atomica – don Georg disse che “dall’11 febbraio 2013 il ministero papale non è più quello di prima. È e rimane il fondamento della Chiesa cattolica; e tuttavia è un fondamento che Benedetto XVI ha profondamente e durevolmente trasformato nel suo pontificato d’eccezione”.
Il suo è stato un “ben ponderato passo di millenaria portata storica”, un “passo che fino ad oggi non c’era mai stato”.
Perché Benedetto XVI “non ha abbandonato l’ufficio di Pietro”, ma “l’ha invece rinnovato”.
Infatti “egli ha integrato l’ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune” e “intende il suo compito come partecipazione a un tale ‘ministero petrino’… non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo”.
Fino a quel discorso del 21 maggio, Bergoglio – che deve aver ascoltato queste cose da Benedetto XVI (ma senza capirle bene) – spiegava il papato emerito sulla stessa linea: diceva che quello di Benedetto era stato un “atto di governo”, che egli aveva rinunciato solo all’esercizio attivo e faceva l’analogia con i vescovi emeriti.
Però dopo il discorso di Gaenswein di maggio, alla corte bergogliana si è capito la portata del problema ed è scattato l’allarme. Così a giugno, di ritorno dall’Armenia, Bergoglio ha bocciato la tesi di un ministero papale “condiviso”.
SILURO SU BENEDETTO
Poi, in pieno agosto, su “Vatican Insider” (termometro della Curia) è uscita un’intervista di Tornielli a un importante canonista ed ecclesiastico di Curia, dove si delegittima in toto la figura del “papa emerito” perché “l’unicità della successione petrina non ammette al suo interno alcuna ulteriore distinzione o duplicazione di uffici o una denominazione di natura meramente ‘onorifica’ o ‘nominalistica’ ”. Inoltre “non si dà alcuna sottodistinzione tra il munus e il suo esercizio”.
Però Benedetto XVI, nella pienezza dei suoi poteri, decise proprio di restare papa e rinunciare al solo esercizio attivo del ministero. Se quella sua decisione è inammissibile e nulla significa che è nulla anche la sua rinuncia?
.
Antonio Socci
Da “Libero”, 10 settembre 2016