23/12/16

Da Pacem Domine. Cari Amici, Buon Natale!


Pax Christi!
Chorus:
Da pacem, Domine, in diebus nostris
Quia non est alius
Qui pugnet pro nobis
Nisi tu Deus noster.

1. Fiat pax in virtute tua: et abundantia in turribus tuis.

Da pacem, Domine, in diebus nostris
Quia non est alius
Qui pugnet pro nobis
Nisi tu Deus noster.

2. Propter fratres meos et proximos meos loquebar pacem de te:

Da pacem, Domine, in diebus nostris
Quia non est alius
Qui pugnet pro nobis
Nisi tu Deus noster.

3. Propter domum Domini Dei nostri quaesivi bona tibi.

Da pacem, Domine, in diebus nostris
Quia non est alius
Qui pugnet pro nobis
Nisi tu Deus noster.

4. Rogate quae ad pacem sunt Jerusalem:et abundantia diligentibus te.

Da pacem, Domine, in diebus nostris
Quia non est alius
Qui pugnet pro nobis
Nisi tu Deus noster.

5. Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto, sicut erat in principio et nunc et semper, et in saecula saeculorum. Amen

18/12/16

Carlo Gambescia: "Passeggiare tra le rovine"


pp. 204, euro 14.00
Edizioni Il Foglio di Gordiano Lupi
http://www.ilfoglioletterario.it/Catalogo_Biblioteca_Passeggiare.htm


«I lettori non si aspettino geremiadi sul buon tempo antico. Oppure un elogio di questa o quella tradizione aurea da opporre alla modernità, molle, decadente e corrotta. Proponiamo un'analisi sociologica del fenomeno sociale decadenza, se ci si perdona la caduta di stile, nudo e crudo. Pertanto per coloro che si aspettano lamenti e strepiti, la passeggiata tra le rovine potrebbe risultare sgradita. Per tutti gli altri invece può essere un'occasione per riflettere e "smontare" insieme a chi scrive, passeggiando idealmente tra le rovine, la "macchina" della decadenza.» (Carlo Gambescia, dalla Prefazione)

11/12/16

Come distruggere (con ironia) l’evoluzionismo


Nel 2014 quelli che Tom Wolfe definisce «otto pesi massimi dell’evoluzionismo» — fra i quali si poteva annoverare perfino il più celebre studioso di linguistica strutturale al mondo, Noam Chomsky — hanno ammesso, in un articolo scientifico, che «l’evoluzione del linguaggio rimaneva un mistero». Un’affermazione di grande peso, anche se quasi del tutto ignorata, perché proprio l’esistenza del linguaggio di fatto annullava la pretesa darwiniana di dimostrare scientificamente che l’essere umano non era altro che un animale più evoluto.
Quando legge la notizia, lo scrittore statunitense pensa: «Centocinquant’anni dall’avvento della teoria dell’evoluzione e non hanno ancora scoperto nulla». E, con acuta ironia, ripercorre il cammino che ha portato gli evoluzionisti ad ammettere un ostacolo insormontabile — e cioè la difficoltà di spiegare in termini evoluzionistici il linguaggio umano — nella loro teoria scientifica, da Wolfe giustamente definita come cosmogonia, cioè un tentativo di spiegare compiutamente l’origine del mondo.
Lo sguardo acuto dello scrittore non solo esplora le teorie scientifiche, ma ci mette di fronte a uomini in carne e ossa, ritratti nel loro ruolo sociale, nel loro carattere e nelle loro meschinerie. Meschinerie che — Wolfe lo spiega con leggerezza nel libro Il regno della parola (Firenze, Giunti, 2016, pagine 192, euro 18) — sono parte inevitabile nel definire quello che poi viene chiamato il progresso della scienza.
Così racconta la vicenda che ha reso credibile l’evoluzionismo, cioè la scoperta del meccanismo che farebbe scattare l’evoluzione — la sopravvivenza del più forte — sia in Darwin che in Wallace: in entrambi l’idea nasce dalla lettura di Malthus, che non era uno scienziato, e viene poi trasferita in ambito scientifico. Ma mentre Wallace, simpatico avventuriero di umili origini e autodidatta, scrive subito un articolo sulla scoperta, Darwin, agiato gentiluomo che aveva studiato a Cambridge, tergiversa da anni. Sarà solo la lettera di Wallace, che gli manda il manoscritto in cui narra la scoperta, a dargli la spinta necessaria a scrivere qualcosa delle sue elucubrazioni.
Ma l’establishment della scienza inglese è tutto dalla parte di Darwin, gli assicura il primo posto nella scoperta e lo aiuta a raggiungere e a mantenere quella posizione preminente che i libri scritti successivamente — benché lunghi e farraginosi rispetto a quelli più brevi e più chiari di Wallace — gli assicureranno. L’agiatezza familiare grazie alla quale si può dedicare solo allo studio e alla scrittura permetteranno a Darwin di sviluppare la sua teoria facendone una nuova cosmogonia, da contrapporre a quella religiosa.
Wolfe sottolinea come questa cosmogonia sia in realtà solo una creazione letteraria, proprio come tutte le altre cosmogonie che vengono chiamate miti. Ma la pretesa scientifica di Darwin, insieme alla sua importanza sociale, vengono accettate in un ambiente dove la scienza sta diventando l’unica spiegazione accettabile per qualsiasi fenomeno. Fondamentale poi fu il fatto che Darwin, il quale si dichiarava agnostico, offrisse una versione delle origini del mondo che permetteva di fare a meno di Dio e questo, in società che si stavano rapidamente secolarizzando, costituiva una caratteristica decisiva per decretare il successo del libro.
Gli attacchi che fecero scricchiolare il darwinismo non arrivarono dal clero, intimidito dalla sua rispettabilità scientifica, ma da altri due scienziati: il solito vivace autodidatta Wallace che, dopo avere militato nelle fila del darwinismo, scrisse un’opera nella quale ne denunciava i punti deboli. Fra questi, in particolare, il fatto che l’evoluzione non spiega come mai l’uomo avesse fin dalle origini un organo specificamente sviluppato con capacità assai superiori a quelle che gli servivano per sopravvivere, un organo che sembra preparato in anticipo per uno sviluppo quasi illimitato, e che spiega il linguaggio: il cervello. In sostanza Wallace scrive che «il potere del cervello umano si estendeva talmente al di là dei confini della selezione naturale che il termine diventava insignificante nel dar conto delle origini dell’uomo».
Nello stesso periodo, Max Muller, il più noto e stimato linguista britannico, affermò coraggiosamente che «il linguaggio è il nostro Rubicone, né alcun bruto ardirebbe varcarlo». Lo studioso andava cioè dicendo che l’uomo aveva un superpotere difficilmente spiegabile con l’evoluzione: il linguaggio. Nonostante tutti i tentativi messi in atto da Darwin per superare questo ostacolo, esso rimase tale, e per circa settant’anni nessuno affrontò più il problema finché, con Noam Chomsky, si ripresentò la questione con modalità che somigliavano molto al confronto fra Darwin e Wallace.
Chomsky — sostenuto dal plauso generale della scienza — sosteneva di avere risolto finalmente il problema della compatibilità fra linguaggio ed evoluzione: secondo la sua teoria, infatti, in ogni essere umano esisteva una sorta di organo predisposto al linguaggio, che garantiva così il veloce apprendimento della parola nei bambini. La prova era che al di sotto di tutte le lingue esisteva una struttura comune, che provava quindi il funzionamento dell’organo al di là delle infinite varianti linguistiche presenti nel mondo.
Nessuno osò mettere in discussione la sua scoperta, basata su osservazioni teoriche, non certo su osservazioni linguistiche sul campo, fino a quando uno studioso autodidatta, Daniel Everett, dopo trent’anni di vita in una comunità sperduta del Brasile pubblicò articoli e libri in cui presentava una lingua che non aveva nulla a che fare con la struttura originaria scoperta da Chomsky: una lingua molto primitiva che corrispondeva esattamente al livello culturale della tribù. Esperienza che portava il ricercatore ad affermare che la lingua era un artefatto umano, e non frutto dello sviluppo di un organo preesistente.
Everett sostenne che la lingua era uno strumento che spiegava la supremazia della specie umana sugli altri animali, come la sola evoluzione non potrebbe mai fare. Il duro e coraggioso attacco al patriarca della linguistica veniva non solo da un autodidatta, se pure eccezionalmente dotato per la ricerca, ma da un giovane che si era recato presso quella tribù con la famiglia, come missionario evangelico. Chomsky cercò di ignorarlo, lo trattò da povero ciarlatano, ma i libri del «Davide» Everett alla fine riuscirono a far fare marcia indietro al «Golia» Chomsky, che cominciò a cassare dai suoi scritti la teoria dell’organo predisposto, senza però fare mai autocritica. Fino a giungere all’ammissione del carattere misterioso del linguaggio, dalla quale prende inizio il libro di Wolfe.
Lo scrittore statunitense denuncia proprio in questo mistero il fallimento di ogni teoria evoluzionista: «Il linguaggio, e solo il linguaggio, ci ha permesso di conquistare ogni palmo di terra di questo mondo, di soggiogare ogni essere abbastanza grande da rendersi visibile e di mangiarci la metà della popolazione dei mari». E può finalmente così concludere: «Dire che gli animali si sono evoluti nell’uomo è come dire che il marmo di Carrara si è evoluto nel David di Michelangelo. Il linguaggio è ciò a cui l’uomo rende omaggio in ogni istante che possa immaginare».
di Lucetta Scaraffia
http://www.osservatoreromano.va/it/news/come-distruggere-con-ironia-levoluzionismo

07/12/16

Tommaso Romano: "Elogio della distinzione"



 La distinzione per non perdersi nel mare magnum della volgarità di usi e di costumi oggi imperante, la distinzione per rivendicare la propria individualità davanti alla massa plaudente che ha come unico merito quello di correre in soccorso del più forte! Come distinguersi, come essere se stessi, come vivere con stile in un tempo di barbarie?
Sono queste le domande che si pone il saggio di Tommaso Romano “Elogio della distinzione”, (fondazione Thule cultura) in cui passa in rassegna l'esegesi e la storia dell'Aristocrazia, della Cavalleria e della Nobiltà.
Se i natali danno in qualche modo un imprimatur necessario, questo solo non è sufficiente per fare di un uomo un gentile.
Dante ce lo insegna: la vera nobiltà non risiede solo nella stirpe e nel sangue ma soprattutto nel cosiddetto cor gentile ovvero nell’animo capace di provare nobili sentimenti e comportarsi di conseguenza.
 A partire da questo assunto Romano, in quello che si può considerare un vero e proprio manuale del viver cortese, diventa guida sapiente per chi intenda intraprendere con totale disinteresse economico e professionale la strada verso la distinzione, contro la massificazione e la standardizzazione dell'uomo di oggi.
“La distinzione può essere perseguita da tutti volendolo, ordinando le idee, seguendo studio, esempi e ciò che di nobile ditta dentro”. (pag. 5)
Come d’altronde ci insegna il filosofo Epicuro: “Non la natura, che è unica per tutti, distingue i nobili dagli ignobili, ma le azioni di ciascuno e la sua forma di vita”. (pag.68).
Nella prima parte del libro troviamo l’Apologia della condizione singolare in cui Romano si appoggia a uno dei pilastri del suo pensiero: la Tradizione.
Come ama spesso ripetere: “Tanto più forti saranno le sue radici tanto più l'albero (l'uomo) crescerà in altezza (morale)”.
 Dopo avere passato in rassegna il pensiero legato alla Tradizione Romano affronta un tema a lui particolarmente caro: la casa.
Essa da semplice dimora diviene la cartina di tornasole da cui è possibile avere un identikit esatto di chi la abita, del suo (buon) gusto, del modo in cui passa il tempo libero, del valore che dà agli oggetti che diventano testimonianza delle sue esperienze di vita.
Sapere distinguersi non può che passare dal modo in cui si vive la casa, dal rapporto che si instaura con essa ma questa non deve necessariamente essere un rifugio solitario, un eremo senza terra ma "può aprirsi, accogliere pochi e scelti interlocutori per goethiane affinità elettive.... I libri, le suppellettili, gli oggetti, la musica, le buone persone, un animale fedele, la memoria ci faranno ala non certo ingombrante" (pag 22).
Si può dunque affermare con Romano che la casa è la proiezione della propria identità.
Dopo questa prima parte di carattere didascalico il volume presenta un florilegio di autori diversi, per stile, pensiero ed epoca storica, che nei loro scritti e nel loro pensiero hanno codificato regole e grammatica della Nobiltà, spiegato il motivo della nascita della Cavalleria e dell’Aristocrazia. In quelli più recenti, è presente la biunivoca corrispondenza tra caduta di valori dei nobili ideali e crisi del tempo storico presente.
Tra le tante citazioni mi piace riportarne una di Nicolas Gomes Davila. Lo scrittore, aforista e filosofo colombiano così scrive: “Più gli uomini si sentono uguali, più facilmente tollerano di essere trattati come pezzi intercambiabili, sostituibili e superflui. L’uguaglianza è la condizione psicologica preliminare delle carneficine fredde e scientifiche”.
Se ci riflettiamo bene, altro non è che un elogio della diversità alla rovescia cioè mettendone in evidenza i limiti autodistruttivi dell’uguaglianza intesa come obiettivo supremo da raggiungere per un popolo che vuol definirsi civile. 
 Segue infine un saggio sulla Nobiltà, ( scritto appositamente per Tommaso Romano) sulla Cavalleria e sull’Aristocrazia dell'illustre studioso,  il nobile spagnolo Amadeo-Martin Rey y Cabieses, (Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro Corrispondente del Collegio Araldico di Roma )  storico e critico nell’ambito araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che mostra  una particolare attenzione alla storia della nobiltà italiana.
Lo scrittore spagnolo espone a chiare lettere quelli che sono i tratti distintivi della nobiltà: il rispetto della parola data, la bontà, la generosità, il valore e l’umiltà del cuore.
Nel capitolo finale, prima di una ricchissima bibliografia, c’è il Congedo al Café de Maistre, in cui Romano, malinconicamente, constata come ai nostri tempi la cultura, l’arte, la tradizione, la stessa fede siano diventati degli pseudo valori da utilizzare a piacere per il proprio tornaconto.
E allora cosa fare? La ricetta di Tommaso Romano è semplice eppur non sempre facile da attuare: “ Resistere, pur sapendo di servire una causa perduta…..Profferire parole e concetti solo quando richiesto, declinando con garbo ma fermamente la compagnia di arrivisti, molesti e insulsi; studiare e scrivere per sé e per chi egualmente non si piega…mostrare la bellezza e la potenza del creato. Tutto ciò con la ferma consapevolezza di stare in minoranza, in assoluta minoranza, forse testimoni attivi di una ipotetica, eventuale futura memoria”. ( pag. 133-134)
Una voce fuori dal coro, un anticonformista assoluto che nella vita ha sempre seguito i suoi ideali a costo di rimetterci personalmente, pur di non abbassare la testa davanti al potente di turno. Questo è, ed è sempre stato, Tommaso Romano per chi lo conosce e a cui non fanno stupore le lapidarie frasi del suo “Elogio della Distinzione”.
Per i pochi che non lo conoscono ancora, questa lettura servirà a comprendere la figura di un intellettuale a volte scomodo ma per questo più interessante da studiare perché, attraverso il capovolgimento della prospettiva, ci fa vedere la realtà con occhi diversi e disincantati.    
Giovanni Taibi